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Patologie Terapie Medicina - Micronova INFORTUNI/Medicina... · 2016. 1. 13. · conseguenza di...

Date post: 06-Mar-2021
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MEDICINA SPORTIVA 1 Patologie Alluce valgo 2 Anemia del runner (6) Bandelletta tibiale (18) Condropatia rotulea 2 Dolori ai muscoli 2 Emoglobinuria 3 Extrasistole (7) Fratture da stress 3 Ginocchio: i test funzionali (2) Infezione delle vie aeree e corsa (15) Lesioni muscolari 5 Mal di schiena 6 Metatarsalgia (23) Morte da sport 7 Neuroma di Morton 7 Piede d'atleta 7 Problemi intestinali (28) Pubalgia 8 Sindrome del tibiale anteriore 8 Sindrome invisibile da carico 9 Sindromi neuropatiche 10 Soffio al cuore 11 Sovrallenamento: quando è reale? (24) Stanchezza 11 Strabismo rotuleo (23) Tallonite 12 Tendiniti 13 Tendiniti e farmaci (17) Terapie Analisi cliniche (19) Antinfiammatori 14 Chiropratica 14 Ciclo del dolore (12) Elettrostimolazione 15 Fibrolisi (9) Fisioterapia 16 Ghiaccio 17 Infortuni 18 - Prevenzione 18 - Il decalogo (16) - La ripresa 19 - Le percentuali (22) Infortuni e rete neurale (13) Ipertermia (7) Kinesiologia 20 Litotritore (onde d'urto) 21 Malocclusione dentaria, bite e infortuni (8) Manipolazione 15 Osteopatia 21 Plantare 23 Regola del 10% (26) Riabilitazione postintervento (16) Riposo 23 Scelta del terapeuta 24 Stretching 25 Tallone sopraelevato (8) Tecarterapia 26 Medicina Acido urico: controllatelo! (11) Benessere: quante uscite settimanali? (25) Capacità e resistenza aerobica 27 Capacità respiratoria 27 Colesterolo HDL e allenamento 27 Consumi dei vari sport 28 Consumo energetico della corsa 29 Donazione di sangue 29 Ematocrito: quanto può variare? 30 Emocromo: valutazione 31 Gene ACE e resistenza atletica (27) Grandezze fondamentali 31 Invecchiamento e prestazione 32 Massimo consumo d'ossigeno 34 Medico sportivo 35 Muscoli 36 - Generalità 36 - Dizionario muscolare (4) Polmoni a rischio? 37 Il rimodellamento osseo (3) Sangue (generalità) 37 Soglia anaerobica 38 Sport: alta o bassa intensità? (29)
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Patologie Alluce valgo 2 Anemia del runner (6) Bandelletta tibiale (18) Condropatia rotulea 2 Dolori ai muscoli 2 Emoglobinuria 3 Extrasistole (7) Fratture da stress 3 Ginocchio: i test funzionali (2) Infezione delle vie aeree e corsa(15) Lesioni muscolari 5 Mal di schiena 6 Metatarsalgia (23) Morte da sport 7 Neuroma di Morton 7 Piede d'atleta 7 Problemi intestinali (28) Pubalgia 8 Sindrome del tibiale anteriore 8 Sindrome invisibile da carico 9 Sindromi neuropatiche 10 Soffio al cuore 11 Sovrallenamento: quando è reale? (24) Stanchezza 11 Strabismo rotuleo (23) Tallonite 12 Tendiniti 13 Tendiniti e farmaci (17)

Terapie Analisi cliniche (19) Antinfiammatori 14 Chiropratica 14 Ciclo del dolore (12) Elettrostimolazione 15 Fibrolisi (9) Fisioterapia 16 Ghiaccio 17 Infortuni 18 - Prevenzione 18 - Il decalogo (16) - La ripresa 19 - Le percentuali (22) Infortuni e rete neurale (13) Ipertermia (7) Kinesiologia 20 Litotritore (onde d'urto) 21 Malocclusione dentaria, bite e infortuni (8) Manipolazione 15 Osteopatia 21 Plantare 23 Regola del 10% (26) Riabilitazione postintervento (16) Riposo 23 Scelta del terapeuta 24 Stretching 25 Tallone sopraelevato (8) Tecarterapia 26

Medicina Acido urico: controllatelo! (11) Benessere: quante uscite settimanali? (25) Capacità e resistenza aerobica 27 Capacità respiratoria 27 Colesterolo HDL e allenamento 27 Consumi dei vari sport 28 Consumo energetico della corsa 29 Donazione di sangue 29 Ematocrito: quanto può variare? 30 Emocromo: valutazione 31 Gene ACE e resistenza atletica (27) Grandezze fondamentali 31 Invecchiamento e prestazione 32 Massimo consumo d'ossigeno 34 Medico sportivo 35 Muscoli 36 - Generalità 36 - Dizionario muscolare (4) Polmoni a rischio? 37 Il rimodellamento osseo (3) Sangue (generalità) 37 Soglia anaerobica 38 Sport: alta o bassa intensità? (29)

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Patologie - Alluce valgo L'alluce valgo è una patologia piuttosto diffusa che può creare parecchi problemi a chi vuole svolgere un'attività sportiva. A causa della lussazione dei sesamoidi (due ossicini che funzionano come binari per l'articolazione dell'alluce), la deviazione laterale dell'alluce (che causa anche la deformazione a martello del secondo dito del piede) provoca una borsite da sfregamento contro la scarpa; in genere il processo degenera con alterazioni artrosiche. Se s'interviene per tempo, l'uso di un plantare può congelare la situazione, anche se ovviamente non può farla regredire alla normalità. Spesso solo l'intervento chirurgico risolve completamente il problema. Recentemente si è affermata la tecnica dell'australiano Bosch che consente (con un intervento di pochi minuti in anestesia locale) di risolvere il problema, avendo come unica contropartita un'andatura impacciata per circa un mese. Infatti, rispettando l'integrità dell'articolazione, viene sezionato il primo metatarso, lo si sposta e lo si fissa con un asta metallica che viene tolta dopo trenta giorni. Nel caso di alluce valgo sono da evitare scarpe che caricano troppo la parte anteriore del piede (quelle che hanno troppo dislivello antero-posteriore), nonché quelle che, a causa di cuciture o di tomaia troppo rigida, provocano compressioni. L'intervento è consigliato quando le prime due dita del piede tendono ad accavallarsi.

Condropatia rotulea La condropatia è una sofferenza del tessuto cartilagineo (si parla di condromalacia quando è in atto un processo degenerativo) attorno all'osso. In genere si individuano tre gradi di gravità della patologia: 1) rammollimento della cartilagine senza fissurazione; 2) fissurazioni localizzate o diffuse; 3) perdita di sostanza cartilaginea con esposizione dell'osso. Per lo sportivo (e per il runner in particolare) ha importanza soprattutto la condropatia rotulea (negli Stati Uniti anche detta ginocchio del corridore), una tipica patologia da sovraccarico. La causa è infatti da ricercarsi nei ripetuti microtraumi del gesto sportivo, aggravati da una situazione anatomica sfavorevole (ginocchio valgo, rotula alta, lassità legamentosa ecc.). La patologia può essere asintomatica, ma in genere compare un dolore intorno alla rotula, presente sia a riposo sia sotto sforzo (per esempio contraendo il quadricipite, salendo o scendendo le scale ecc.) e alla pressione. Le cure dipendono dalla gravità della patologia, ma in genere prevedono il riposo (anche

assoluto nei casi più gravi), crioterapia e fisioterapia. Particolarmente indicato è il potenziamento muscolare in quanto il movimento della rotula (che in condizioni normali scorre sul femore senza toccarlo) dipende dal quadricipite. Si agisce di solito sul vasto mediale poiché statisticamente la rotula si decentra esternamente. Nei casi in cui si rende indispensabile, l'intervento chirurgico viene effettuato per correggere meccanicamente l'ambiente di lavoro della rotula.

Dolori muscolari I dolori muscolari successivi alla corsa hanno in genere cause e modalità di comparsa diverse. È importante capirne le cause per dimensionare correttamente l'allenamento. Dolore da sforzo - Si verifica durante la prova e riguarda uno o più muscoli. Le cause possono essere un accumulo di acido lattico (se riguarda un muscolo, in particolare in soggetti non ben allenati) o l'esaurimento delle scorte energetiche (se è generalizzato alle gambe). Dolore successivo – Compare dopo 24 ore dallo sforzo e in genere può protrarsi fino a 3-4 giorni. In genere si ritiene che il dolore sia la conseguenza di esercizi eccentrici come la corsa in discesa. Correndo in discesa con una pendenza di 10° per circa 30' si ottiene un picco di dolore 42 ore dopo lo sforzo. Verificando la situazione dell'atleta si constata: a) l'aumento di CPK nel sangue e di mioglobina nelle urine che evidenzia lesioni cellulari (rabdomiolisi); b) la mobilizzazione di leucociti che indica una reazione infiammatoria; c) l'accumulo di metaboliti (calcio) nelle cellule muscolari che aggrava il quadro della lesione. Contrariamente alla credenza comune, il dolore successivo allo sforzo NON è dovuto all'accumulo o all'azione dell'acido lattico. Anche alte concentrazioni di acido lattico (le più alte si hanno al termine di

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gare di velocità prolungata come gli 800 m) un'ora dopo lo sforzo si sono drasticamente ridotte fino ad azzerarsi qualche ora dopo. La situazione evolve verso la cicatrizzazione dei tessuti, il danno viene in genere risolto in tre settimane e il muscolo risulta più resistente a un esercizio simile a quello che ha provocato il dolore. Purtroppo con il ripetersi nel tempo dei traumi, la riparazione spesso lascia come strascico fibrosi muscolari che danno sintomatologie simili alle contratture. Occorre notare che, per quanto si gradualizzi lo sforzo, è spesso impossibile evitare il dolore la prima volta che si compie l'esercizio. Come terapia si possono usare un riposo di due o tre giorni. Alcuni atleti usano anche antinfiammatori (aspirina); tale pratica non è consigliabile se non occasionalmente. I massaggi in genere sono controindicati (mentre vanno benissimo nei casi di affaticamento post-gara quando la dolorabilità non è eccessiva) perché aggiungono un ulteriore trauma. In presenza di postumi di dolorabilità deve essere privilegiata la corsa lenta.

L'emoglobinuria Escludendo patologie dove lo stato del soggetto è compromesso (malattie infettive, intossicazioni, difetti ereditari come il favismo o malattie come l'emoglobinuria parossistica notturna, una grave patologia emolitica dovuta all'alterazione della membrana dei globuli che presenta singolari infossamenti), la presenza di sangue delle urine è spesso associata a fenomeni non preoccupanti come la presenza di piccoli calcoli o di cisti o a fenomeni non patologici come la corsa. Il colore delle urine indica la gravità del fenomeno. Se non esistono condizioni patologiche (che è sempre bene escludere con esami ad hoc), l'emoglobinuria legata alla corsa non presenta particolari problemi. A causa dei traumi derivanti dall'azione meccanica della corsa, l'emoglobina contenuta nei globuli rossi si libera a causa della rottura della membrana (emolisi). Poiché non ha un peso molecolare eccessivo (15.000 ca), riesce a passare attraverso l'epitelio glomerulare finendo nelle urine. Il fenomeno è comune in soggetti che hanno iniziato a correre o che hanno incrementato decisamente il chilometraggio. Anche la corsa su terreni sconnessi e l'uso di scarpe non ammortizzanti favorisce il problema. In generale può indicare un cattivo adattamento al carico allenante.

La frattura da stress Questo articolo fa riferimento a una pubblicazione del prof. F. Benazzo (Le fratture da stress, [email protected]); la chiarezza espositiva dell'opera consente di avere un quadro esauriente e obbiettivo di una patologia molto più frequente di quanto si pensi. La gravità della patologia è dovuta anche al fatto che tessuti a metabolismo lento (come ossa e tendini) hanno un processo riparativo più lungo rispetto ai muscoli e spesso si parla di mesi per risolvere il problema. I dati citati nell'opera di Benazzo e la mia esperienza mi portano a ritenere che le fratture da stress o le stress reaction siano molto più frequenti di quanto si pensi (si veda La sindrome invisibile da carico). Come nasce una frattura da stress? Secondo la legge di Wolff la risposta a carichi deformanti causa un rimodellamento osseo. L'entità dei carichi a loro volta è funzione delle modalità d'applicazione (frequenza, natura, direzione ecc.), del recupero fra i vari lavori, della qualità dell'osso (età e sesso sono i fattori più importanti). Si ha una frattura quando si supera la resistenza dell'osso. In realtà non sempre la frattura è legata a un trauma evidente, ma, soprattutto in campo sportivo, può essere associata a microtraumi ripetuti. Purtroppo non è sempre evidente il limite fra frattura da stress e altre patologie ossee e dal lavoro di Benazzo si comprende come anche fra gli addetti ai lavori esista una certa confusione terminologica. Riassumendo si può dire che esistono: - periostiti - tendinopatie inserzionali - stress reaction - fratture da stress In particolare le stress reaction sono a volte condizioni legate a una risposta fisiologica dell'osso a volta la fase iniziale (reversibile) con cui ci si incammina verso la frattura da stress. Sono evidenziate dalla risonanza magnetica, ma non presentano rima di frattura, anche se è presente dolore da carico più o meno intenso. Le stress reaction nel mondo amatoriale probabilmente hanno un'importanza ancora maggiore che le fratture da stress. Il motivo è semplicemente dovuto al fatto che l'amatore (a differenza del professionista), in presenza di un dolore anche non trascurabile e continuo durante l'esercizio, è portato a fermarsi, accelerando il processo riparativo; anche quando non decide per il riposo, è costretto (dalle minori motivazioni vs. il dolore) a ridurre notevolmente il carico: solo pochi continuano stoicamente (e scioccamente) a correre imbottendosi di antidolorifici, comportandosi come un professionista che non può mancare l'appuntamento mondiale od olimpico e arrivando a una frattura da stress.

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I gruppi interessati dalle fratture da stress sono stati classificati dal lavoro di Benazzo in atleti, militari (le reclute sedentarie costrette a un duro allenamento), soggetti con insufficienza (con ossa cioè patologiche in seguito a osteoporosi o altre malattie e a trattamenti farmacologici con cortisonici o chemioterapici), bambini e adolescenti. Limitandoci alla categoria degli atleti e in particolare dei runner, in letteratura esistono delle statistiche abbastanza concordanti. Riassumendole si trovano dati interessanti. Uno studio di Bennell rileva che in un anno il 75% degli atleti esaminati (un centinaio) aveva avuto lesioni muscolo-scheletriche (1,8 lesioni per atleta in media: non poco, ma realistico); le fratture da stress erano ben il 21% (questo dato è invece meno "evidente", soprattutto fra i dilettanti). Uno studio di Matheson rivela invece che atleti più vecchi presentano fratture da stress soprattutto nelle ossa tarsali e nel femore, mentre i più giovani in tibia e perone; non è stata trovata correlazione fra distanza percorsa e le sedi di lesione. Questo è un punto fondamentale: perché si produca una frattura da stress in un individuo che si allena regolarmente deve cambiare qualcosa in maniera abbastanza rilevante: la quantità, il terreno, l'appoggio (le scarpe) ecc. Si deve cioè pensare che in un soggetto sano esista una naturale propensione all'equilibrio fra distruzione e riparazione. Circa le sedi ovviamente non esiste una precisione assoluta fra i vari studi (occorrerebbe statisticamente esaminare migliaia di casi), ma si può senza dubbio affermare che la tibia, i metatarsi e le altre ossa tarsali rappresentano almeno l'80% delle lesioni. Perone, femore, calcagno, pelvi seguono con percentuali decisamente inferiori. I fattori di rischio e le cause – La scientificità del lavoro di Benazzo permette (a differenza di opere più divulgative, influenzate da considerazioni personali più teoriche che pratiche) di focalizzare l'attenzione su veri fattori di rischio. In particolare: non sembra esistere una relazione chiara fra difetti anatomici e fratture da stress, come a dire che piede cavo o piede piatto spesso vengono sufficientemente compensati; il peso non rappresenta un fattore di rischio, probabilmente perché la grande massa corporea produce anche un aumento del trofismo osseo; il tipo di scarpa (più o meno protettiva) non riduce l'incidenza delle fratture (così come l'uso di plantari); ciò è logico perché chi si abitua a correre con scarpe leggere e poco protettive induce dei meccanismi di difesa. Ha invece importanza l'usura della scarpa: anche ciò quadra con la necessità di variazione di qualche parametro nel quadro dell'atleta perché si verifichi la frattura; il terreno d'allenamento; in particolare non è affatto dimostrata la correlazione fra terreni duri e fratture da stress. Concentriamoci perciò su fattori di rischio "sicuri". Sono sostanzialmente tre. Il primo è rappresentato dalla variazione qualitativa (introduzione di lavori veloci, balzi ecc.) o quantitativa del carico allenante; il motivo è una fatica muscolare eccessiva che provoca sull'osso un aumento delle forze d'impatto: un muscolo che si trova a dover affrontare una nuova situazione non è in grado di garantire l'ammortizzazione necessaria. Il secondo è rappresentato dal sesso: le donne con oligomenorrea (anche se non è chiara l'associazione turbe mestruali-osteoporosi) presentano un rischio sei volte superiore agli uomini e quelle che seguono un regime alimentare per minimizzare il peso sono a rischio circa otto volte più del sesso maschile (Bennell 1995). La contraccezione orale è un fattore di protezione notevole, dimezzando il rischio se si assume la pillola da più di un anno. Da notare che una dieta povera di carne favorisce nelle atlete sia i disturbi mestruali sia un deficit di ferro, di zinco e di proteine in generale, fattori (insieme ad allenamenti in condizione di deplezione di glicogeno per scarsità di carboidrati nella dieta) che favoriscono appunto le fratture da stress. L'unico vantaggio delle donne rispetto agli uomini è che la frattura da stress in genere guarisce in un tempo che è circa la metà. L'ultimo fattore di rischio è rappresentato dall'età: un'età più avanzata favorisce le fratture da stress. I sintomi e la diagnosi - Il sintomo classico è il dolore che inizia spesso modestamente per arrivare progressivamente a un'intensità tale da impedire il gesto atletico nel giro di 2 o 3 settimane. Generalmente è localizzato, ma spesso tende ad assumere connotazioni diffusive nonché a subire variazioni in concomitanza con gli stadi evolutivi della frattura. La diagnosi non è facile, non tanto per una valutazione differenziale con un insieme ben definito di patologie (occorre tener presente anche rare sindromi compartimentali), quanto perché gli strumenti di indagine clinica danno risposte certe solo dopo un periodo di tempo non trascurabile (a volte mesi) e gli esami vanno svolti con molta cura e secondo tecniche d'indagine ben precise. La radiografia tradizionale è il primo esame che se positivo conferma la frattura da stress. Purtroppo i casi di positività (soprattutto nelle prime fasi) non sono molti: è cioè un esame poco sensibile (molte fratture possono risultare negative), ma specifico (se c'è positività si è in presenza di una frattura). La strada successiva in caso di radiografia negativa, ma persistenza del dolore può essere la risonanza magnetica o l'accoppiata scintigrafia-TC (tomografia computerizzata). La scintigrafia è una tecnica molto sensibile, ma poco specifica e richiede la TC (eseguita nelle aree ipercaptanti dolorose evidenziate dalla scintigrafia) per rilevare la rima di frattura e quindi la diagnosi di frattura da stress. Questa strada richiede spesso due esami e comunque necessita anch'essa di un tempo abbastanza lungo dall'inizio della sintomatologia e la diagnosi (sempre qualche mese)

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Dal lavoro di Benazzo si deduce che l'esame cardine per la frattura da stress è la risonanza magnetica (secondo una tecnica standardizzata da Genovese e coll., 1995), eventualmente ripetuta dopo 2-4 settimane se risultasse negativa con dolore (caso abbastanza raro). Le cure - Ovviamente dipendono dalla sede e dalla gravità. Si va dal semplice riposo con biostimolazione e ultrasuoni all'applicazione di un apparecchio gessato, all'intervento chirurgico. Quest'ultima soluzione non è così comune come si potrebbe pensare parlando di fratture e in genere interessa situazioni o sedi molto particolari (per esempio la rotula o il V metatarso).

Le lesioni muscolari La categoria delle lesioni muscolari acute comprende vari generi di patologie, classificate secondo la gravità del danno muscolare. I muscoli colpiti più frequentemente sono il quadricipite (vasto mediale), il tricipite surale, il bicipite femorale e i muscoli ischiocrurali. In ordine di gravità, le lesioni possono essere suddivise in contratture (il muscolo è contratto), elongazioni (si ha una distensione delle fibre muscolari ma non c'è rottura), distrazioni (in questo caso le rotture interessano parte delle fibre del muscolo, con emorragie e conseguenti ecchimosi a livello sottocutaneo) e rotture (in questo caso la rottura delle fibre interessa tutto il muscolo o una sua parte estesa). Le cause delle lesioni muscolari sono molto varie e possono essere legate all'attività sportiva, a squilibri muscolari, a contusioni, a condizioni ambientali non ottimali. Per quanto riguarda l'attività della corsa, le lesioni sono favorite da carenze tecniche nella corsa, scarsa flessibilità o coordinazione muscolare, eccessive contrazioni dei muscoli, riscaldamento non adeguato o recupero insufficiente dopo un precedente sforzo atletico. Quest'ultimo punto è fondamentale: la causa non è un'insufficiente forza muscolare, quanto un recupero insufficiente. Prova ne sia che anche i campioni (in cui un deficit muscolare è improbabile) soffrono di lesioni muscolari. Nel gergo comune si parla di stiramento muscolare, strappo ecc. In realtà occorre descrivere l'infortunio in base a ciò che provoca nel muscolo. Se comprendete bene cosa accade, sarete in grado di diagnosticare facilmente l'infortunio. Nelle contratture si ha dolore al muscolo colpito che influisce negativamente sulla sua efficienza. L'esame obbiettivo consente di verificare facilmente la patologia, sia per la presenza di sintomi sia perché la pressopalpazione consente di verificare che il muscolo è contratto. Nel caso delle elongazioni il dolore è diffuso lungo tutta la fascia muscolare; con le distrazioni invece il dolore è maggiormente focalizzato in punto ed è possibile individuare la presenza di ecchimosi o ematomi. In presenza di rottura, oltre a dolore ed ematoma, è evidente il punto in cui le fibre del muscolo sono interrotte a causa del trauma. L'esame ecografico consente di stabilire lo stato preciso della situazione patologica e di seguirne l'evoluzione e la guarigione. Nonostante si possa pensare che la lesione muscolare sia un infortunio in cui sia necessario l'intervento immediato, si deve riconoscere che con esse trionfa il metodo StopAndGo. L'intervento immediato può servire solo per una diagnosi dell'accaduto; va da sé che un'ecografia è sicuramente molto più sicura che il parere di personaggi non estremamente preparati. Contrattura - L'infortunio guarisce spontaneamente in 7 gg; indicate le terapie self (soprattutto impacchi caldo-umidi). Possibile usare antinfiammatori, miorilassanti. Il problema con la massoterapia è che un cattivo massaggiatore apporta più danni che benefici. Elongazione - Il periodo di stop consigliato è di 15-20 gg. Fondamentale seguire le indicazioni sulla ripresa del metodo StopandGo. Distrazione - Il periodo di stop consigliato dal metodo è di 20 giorni; le terapie self sono ghiaccio per due giorni, antinfiammatori e miorilassanti per 7 giorni, bendaggio compressivo. Se dopo 20 giorni l'infortunio non è rientrato (20 giorni è il periodo minimo per una distrazione che può richiedere anche 40 giorni di stop), l'intervento dell'ortopedico può associare altre terapie (tecarterapia, fibrolisi, massoterapia ecc.). Rottura (strappo) - È il caso in cui l'intervento dell'ortopedico è giustificato da subito, poiché nei casi più gravi è indicato l'intervento chirurgico per suturare le fibre muscolari. L'intervento immediato consiste in crioterapia, antinfiammatori, miorilassanti. Il metodo è automaticamente applicato perché si richiede riposo assoluto (con l'arto in posizione declive) per almeno 15-20 giorni. Poi l'ortopedico farà il punto della situazione. L'interruzione dell'attività sportiva può anche raggiungere i quattro mesi. La rieducazione è consigliabile solo a guarigione avvenuta. Per un recupero completo è fondamentale rispettare i tempi della riabilitazione, senza avere fretta di tornare ad allenarsi. Quando si riprende l'attività si deve prestare la massima attenzione alla programmazione degli allenamenti e alla fase di riscaldamento. L'indicazione di fare stretching nel caso di lesione muscolare ottiene spesso effetti contrari a quelli sperati. Innanzitutto perché lo stretching è comunque un fatto traumatico su un muscolo infortunato e, soprattutto, se fatto male, può essere devastante. Se il terapeuta propone lo stretching o perde il tempo necessario a spiegare al paziente come si fa o gli passa un riferimento valido (per esempio La bibbia dello stretching in quindici volumi) dove ci si possa documentare. Liquidare la faccenda in trenta secondi è come se un farmacista mettesse in mano al cliente un farmaco senza foglietto illustrativo.

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Mal di schiena Le patologie della schiena riguardano soprattutto le degenerazioni della colonna vertebrale. La colonna vertebrale è il complesso di ossa che forniscono il sostegno mediano e posteriore del corpo. È divisa in colonna cervicale (sette vertebre), dorsale (dodici vertebre), lombare (cinque vertebre), sacrale (cinque vertebre) e coccige. Nel canale vertebrale, situato al suo interno, scorre il midollo spinale. Fra le vertebre sono presenti strutture elastiche (dischi) che permettono alla colonna di sopportare carichi notevoli. La colonna vertebrale ha quattro deviazioni fisiologiche (cervicale, dorsale, lombare e sacro-coccigea) che consentono carichi dieci volte superiori rispetto a una struttura rettilinea. Il disco intervertebrale è formato da un nucleo polposo (molto ricco d'acqua, quasi il 90%) e da un anello fibroso esterno che contiene il nucleo. La struttura del disco funziona da ammortizzatore.

La pressione subita dai dischi dipende ovviamente dalla posizione: è minima in posizione orizzontale, intermedia in posizione verticale e massima quando si è seduti o si è piegati in avanti con un peso in mano che sposta ulteriormente il baricentro. I dischi sono praticamente privi di innervazione; ciò se da un lato consente di muoversi senza provare dolore, dall'altro non permette di accorgersi delle degenerazioni discali se non quando il quadro è diventato sufficientemente grave. Con l'età il disco s'impoverisce d'acqua (l'abbassamento di statura con l'invecchiamento è dovuto in gran parte alla diminuzione di volume dei dischi) a seguito di processi degenerativi che colpiscono i mucopolissaccaridi che hanno il compito di trattenere l'acqua assicurando l'elasticità della struttura. Il processo degenerativo che colpisce i dischi è detto condrosi, mentre si parla di osteocondrosi quando sono coinvolte anche le vertebre. L'osteocondrosi agisce

anche sul sistema nervoso spinale provocando dolore (il 10% ca. dei pazienti presenta una grave invalidità). Il processo degenerativo può produrre anche altre patologie (la spondiloartrosi, cioè la degenerazione delle articolazioni intervertebrali poste dietro ai dischi). L'ernia del disco è la patologia classica dei dischi intervertebrali. A seguito della diminuzione del contenuto acquoso del disco (a settant'anni ci può essere una riduzione anche del 10% della quantità d'acqua), le vertebre si avvicinano (il disco è meno elastico); per rispondere alla nuova situazione il disco cerca di trattenere più acqua e si gonfia (protrusione discale), pur non avendo più le strutture perfettamente integre per contenerla. Se il nucleo polposo si rompe l'ernia non si verifica, ma se è invece l'anello che si crepa a seguito della pressione del nucleo interno, si verifica il prolasso, cioè l'ernia costituita dai materiali generati dalla rottura. Quando questi materiali toccano le innervazioni il paziente prova dolore. L'ernia del disco è molto frequente nella regione lombare, meno nella cervicale, rara nella dorsale. La terapia nella fase acuta si basa su antiinfiammatori e antidolorifici, ma se i sintomi persistono l'intervento chirurgico di asportazione dell'ernia è la soluzione più indicata. In alcuni casi particolari, il nucleo erniato può essere sciolto con particolari enzimi.

La morte da sport Questo articolo è rivolto a medici sportivi, atleti in attività, sedentari. Lo scopo è diverso per ogni categoria. Ai medici sportivi vuole evidenziare come la morte da sport sia un fatto tutto sommato molto improbabile. Troppi medici sportivi adottano nella loro attività un atteggiamento iperconservativo che alla fine penalizza l'atleta. Tipicamente vengono disincentivati alla pratica sportiva atleti perfettamente sani sulla base di sospetti, accertamenti da eseguire ecc. La risposta classica (e stupida) è: non hai niente, ma è meglio se non fai sport. Questa scarsa professionalità (che definirei alla Don Abbondio) porta l'atleta, soprattutto se amatore e avanti con l'età, a passare dalla parte opposta della barricata, diventando un sedentario convinto, e probabilmente a morire d'infarto dieci anni più tardi, dopo essere ingrassato di quindici chili. Il medico sportivo deve cioè assumersi la responsabilità di dichiarare non idoneo un atleta solo se è malato:

non esistono soggetti sani e non idonei! All'atleta in attività questo articolo vuole da un lato insegnare come difendersi da tutti coloro che attaccano lo sport come fonte di potenziali danni fisici e dall'altro a integrare la pratica sportiva con altre scelte di vita: non ha senso fare sport se non si segue un'alimentazione corretta o non si cerca di limitare lo stress del proprio lavoro. Al sedentario che ha paura di fare sport perché basta una corsettina di cento metri per sentirsi il cuore in gola, l'articolo insegnerà che chi muore di sport è già un individuo malato. I sedentari che si ritengono sani possono tranquillamente fare sport.

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Infatti la morte improvvisa è in genere dovuta a un blocco della funzionalità cardiaca dovuto a una causa meccanica o più frequentemente elettrica. Perché avvenga, occorrono due fattori (ripeto DUE): un evento scatenante e un cuore malato. L'evento scatenante può essere legato alla corsa (mancanza di ossigeno, acidosi lattica, aumento della temperatura corporea ecc.) mentre il problema cardiaco può essere noto o meno. Molte patologie cardiache sono rilevabili con semplici esami come elettrocardiogramma o ecografia cardiaca. Quest'ultima è spesso consigliata dopo una visita sportiva, allarmando l'atleta più del dovuto: si tratta comunque di un esame di routine che viene richiesto a una percentuale molto alta di soggetti che si sottopongono alla visita sportiva. Le patologie come la cardiomiopatia ipertrofica, la malattia aritmogena del ventricolo sinistro, la sindrome di Marfan, la miocardite, le anomalie congenite delle arterie coronarie, la stenosi aortica in valvola bicuspide, il QT lungo idiopatico, il Wolf-Parkinson-White sono per fortuna patologie poco comuni e sicuramente non la causa principale di morti da sport. La causa principale di gran lunga più probabile della morte da sport è l'arteriosclerosi coronarica, cioè in parole povere l'infarto. Ciò spiega come l'atleta allenato sia in genere protetto più del sedentario che affronta una prova sportiva: in realtà molte morti da sport colpiscono atleti occasionali (la classica partitella a calcio fra amici o la partita di tennis alle due del pomeriggio), gli sportivi della domenica, tanto per intenderci. Sono soggetti predisposti perché il loro cuore è già intaccato dall'aterosclerosi coronarica. Anche atleti di un certo livello possono presentare il problema: un atleta, la cui autopsia rivelò la completa occlusione di un vaso coronarico, tre settimane prima aveva corso la maratona in 3h06' (fonte Macchi e Franklin). La stessa fonte cita che il 77% degli atleti deceduti presentava aterosclerosi coronarica e il 32% ipertensione arteriosa. Da tutto ciò è molto facile dedurre che: a) aiutando a diminuire il tasso del colesterolo e dei trigliceridi nonché la pressione arteriosa, la corsa diminuisce la probabilità di rischio in caso di sforzo fisico (un'attività sportiva, lavorativa o una situazione occasionale, come rincorrere l'autobus); b) chi corre deve però tenere presente che la protezione non è assoluta e che trigliceridi, colesterolo e pressione arteriosa vanno sempre tenuti sotto controllo.

Neuroma di Morton È una patologia piuttosto diffusa. È una delle cause di metatarsalgia e giustifica il metodo StopAndGo nel caso appunto di metatarsalgia. Anziché aggredire questa patologia con infiltrazioni o inutili fisioterapie è consigliabile appunto il periodo di stop. Nel caso di neuroma ovviamente lo stop non produce nessun miglioramento, ma l'ecografia, eseguita come intervento self, consente una diagnosi precisa. La patologia presenta un'alterazione degenerativa di uno o più nervi intermetatarsali plantari e viene considerata come una sindrome canalicolare del piede a eziologia multifattoriale. Il sintomo neurologico è stato descritto per la prima volta da un inglese, Durlacher, nel 1845, ma la malattia fu attribuita successivamente all'americano Morton che la descrisse nel 1876 come una peculiare affezione dolorosa della quarta articolazione metatarso-falangea. Di solito il neuroma compare nello spazio tra le teste del terzo e del quarto metatarso, ma non è raro anche in altri spazi intermetatarsali e anche bilateralmente. La terapia è ovviamente chirurgica con un intervento piuttosto semplice.

Piede d'atleta Il piede d'atleta è una patologia causata da un fungo (Tinea pedis), frequente soprattutto d'estate quando il caldo favorisce la macerazione della pelle, rendendola indifesa agli attacchi. Si manifesta con desquamazione della pelle fra le dita dei piedi (in genere fra terzo e quarto dito o fra quarto e quinto dito); successivamente la pelle diventa biancastra, umida e possono comparire delle vescicole. L'infezione causa prurito (inizialmente può essere asintomatica; nell'immagine un caso evidentemente trascurato) e difficoltà a calzare le scarpe e può estendersi alle unghie che appaiono ispessite e contornate. Il contagio avviene per contatto con il terreno (tipicamente in piscina o in luoghi umidi) o con altre persone. La terapia prevede l'uso di creme antifungine, ma più efficace è un intervento sistemico che provoca la guarigione nella maggior parte dei casi con un trattamento di 7-10 gg. La terapia sistemica (i livelli ematici dei principi attivi restano elevati anche dopo la sospensione) evita il prolungamento delle cure necessario con i rimedi topici. La prevenzione è fondamentale: piedi freschi e asciutti, scarpe che permettano una traspirazione, calze di cotone (che possono essere lavate ad alte temperature eliminando i germi), l'uso di ciabatte e di asciugamani personali in piscina.

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Pubalgia Si tratta di una mioentesite che colpisce i punti di inserzione sull'osso pubico di diversi muscoli: adduttori, pettineo, piramidale, retti addominali, obliqui addominali, trasversi addominali. Viene provocata generalmente da un carico eccessivo nel corso dell'attività sportiva; colpisce soprattutto i calciatori. Per chi pratica la corsa, la pubalgia viene spesso provocata dal sovraccarico nei punti di inserzione degli adduttori, dovuta a: a) attività su fondo irregolare b) scarpe inadeguate c) scarso equilibrio fra la muscolatura degli arti inferiori e quella addominale (condizione frequente in chi corre) d) infortuni precedenti non ben recuperati e) incremento quantitativo (o qualitativo) troppo rapido dei carichi d'allenamento Il dolore colpisce la zona dell'inguine per estendersi alle zone circostanti e può portare all'interruzione dell'allenamento o della gara. Questa patologia può consentire comunque la prosecuzione dell'attività; è questo l'errore più grave che si può commettere. È necessario invece un periodo di stop di 20 gg. che serve (oltre a identificare la causa del problema e predisporsi a eliminarla alla ripresa) a risolvere i casi meno gravi e a evitare il degenerare della patologia verso quadri dove si rischia di avere problemi anche a camminare. Se il problema persiste dopo il periodo di stop, l'ortopedico con l'esame obbiettivo riscontra un forte dolore a livello inguinale alla pressopalpazione. Anche alcuni movimenti specifici degli adduttori provocano dolore. Il medico deve tenere conto del fatto che altre patologie possono presentare sintomi simili a quelli della pubalgia (ernie inguinali, patologie urologiche o ginecologiche). La radiografia consente di individuare eventuali lesioni a livello dell'osso pubico. In genere l'inefficacia del periodo di stop dà al medico le giuste indicazioni per comporre il cocktail di terapie di aggressione della patologia (massoterapia, infiltrazioni, potenziamento dei muscoli addominali, litotritore ecc.). La fase riabilitativa prevede controlli medici periodici e attività alternative alla corsa (nuoto, corsa in acqua).

Arteriopatia: la prova di Ratschow Le affezioni delle arterie sono attualmente raggruppate come arteriopatie obliteranti, il cui 90% dei casi può essere ricondotto all'arteriosclerosi. Quando la patologia è a uno stadio avanzato, la riduzione del flusso arterioso a valle della lesione causa in genere un dolore piuttosto vivo. Oltre a esami sul paziente e a test funzionali (prova di Ratschow o del pugno della mano, test di Allen), l'indagine diagnostica viene svolta con l'oscillografia meccanica, quella elettronica, l'ultrasonografia Doppler, l'ecotomografia e l'angiologia digitale. I sintomi iniziali dell'arteriopatia sono spesso trascurabili (parestesie, torpore, sensibilità al freddo, stanchezza e affaticabilità degli arti) e solo il dolore di una fase più avanzata porta il paziente dal medico: quando si compie un determinato sforzo (come camminare a lungo o per brevi tratti ma in salita) compare un dolore crampiforme a valle della zona patologicamente interessata. Poiché normalmente di tratta dell'arteria femorale o della poplitea, il distretto dolente è quello del polpaccio. Se il paziente cessa lo sforzo, il dolore si risolve (da qui il nome di claudicatio intermittens o di dyspraxia intermittens agli arti superiori). Le arteriopatie vengono curate con terapie fisiche (allenamento alla marcia), farmacologiche (antiaggreganti piastrinici, anticoagulanti indiretti o diretti con eparina, miglioramento della reologia ematica, vasodilatatori) e chirurgiche. I fattori di rischio delle arteriopatie sono il fumo (da 6 sigarette al giorno), l'ipercolesterolemia (oltre 260 mg/dl), l'ipertensione arteriosa (oltre 160/95), il diabete mellito manifesto, l'obesità e l'iperuricemia. Per chi non crede che una vita sana faccia vivere più a lungo, si consideri che solo lo 0,6% dei casi di arteriopatia riguarda soggetti immuni dai sopraccitati fattori di rischio. Per gli sportivi e per i runner in particolare sono due le sindromi che possono condurre ad arteriopatia: la degenerazione cistica della parete vasale e la sindrome del tibiale anteriore. La degenerazione cistica è dovuta a una degenerazione della tunica avventizia dell'arteria che porta poi a una chiusura del lume. In genere è dovuta a microtraumi ripetuti o traumi diretti. La sindrome del tibiale anteriore colpisce il tibiale, un muscolo situato nella parte anteriore della gamba che permette la flessione dorsale e l'inversione del piede, tant'è che quando ha dei problemi diventa molto difficoltoso sollevare la punta dei piedi. È una patologia subdola perché quando si manifesta in forma non grave non impedisce il gesto atletico, ma si presenta con una semplice sensazione di oppressione o di crampo sul muscolo. Nei casi più gravi si arriva all'obliterazione acuta dell'arteria tibiale. La causa sembra dovuta a un aumento della pressione dei liquidi interstiziali (dovuto ai microtraumi tipici di una maratona o di duri allenamenti in pista o su terreno collinare) o all'ipertrofia del tibiale stesso. La prova di Ratschow è indicata per tutti coloro che hanno problemi ai polpacci, non identificano una causa chiara e sono compatibili con il quadro di un'arteriopatia, seppur lieve.

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Il test si effettua sdraiandosi su una panca, sollevando le gambe a squadra con le ginocchia leggermente piegate. Si flettono ed estendono le punte dei piedi al ritmo di una flessione al secondo (si muovono cioè i piedi come se si schiacciasse e si rilasciasse l'acceleratore di una macchina) per due minuti. Durante l'esercizio la pianta dei piedi potrebbe sbiancarsi. Se si sbiancano prima di 60 secondi esiste un ostacolo all'irrorazione, tanto più grave quanto più veloce è lo sbiancamento. Terminato l'esercizio, ci si siede poi sulla panca con le gambe penzoloni. L'esaminatore valuta la differenza fra i due piedi: non devono esistere differenze significative. Inoltre valuta in quanto tempo si riempiono le vene del dorso del piede: in stato di normalità il riempimento avviene entro i 15 secondi.

La sindrome invisibile da carico Ormai la corsa viene praticata a livello intenso da un numero notevole di appassionati, spesso anche avanti con l'età. È pertanto naturale che i problemi legati agli infortuni rivestano una particolare importanza anche per chi non ha ambizioni olimpiche, ma vede nella corsa, oltre che un modo di fare sport, un modo di migliorare la propria qualità della vita. Essere infortunati vuol dire spesso non vedersi con gli amici per l'allenamento quotidiano, non frequentare un ambiente che ormai si ama o frequentarlo da spettatori anziché da attori: il tutto può essere frustrante se si protrae per diversi mesi. La situazione è aggravata quando l'infortunio è di per sé banale, ma l'atleta non è in grado di riprendere a correre, mentre può svolgere una normale vita da sedentario. In questo articolo viene descritta una sindrome che può essere vista come evoluzione o complicanza di infortuni tutto sommato modesti. Il quadro - Il soggetto presenta moderato dolore alla palpazione; in alcuni casi il dolore è assente. Gli esami (radiografia, ecografia, risonanza ecc.) non rilevano nulla di patologico, al più piccole zone edematose (da qui la denominazione di invisibile). Il soggetto sente dolore soltanto nell'azione di corsa; senza carico non vengono rilevati problemi o sono minimi. CASO 1 - La patologia d'innesco è costituita da una tallonite che costringe il soggetto a intraprendere una terapia che fra l'altro comporta la sospensione della corsa (sostituita dalla bicicletta). Dopo tre settimane gli esami sono tutti negativi e si decide la ripresa degli allenamenti. Il dolore è molto attenuato, ma comunque presente; dopo una settimana si ritorna al livello di gravità iniziale. Dopo due mesi in cui si alternano riprese blande e terapie, il soggetto decide di riprendere la corsa solo quando allo start dell'allenamento il dolore è zero. Con riposo assoluto ciò si verifica dopo altri due mesi. In totale cinque mesi di stop, di cui almeno quattro senza riscontri oggettivi di patologia (anche alla palpazione il dolore era assente). CASO 2 - Il soggetto è vittima di una fortissima contusione all'arcata plantare con interessamento del metatarso. Visto l'imponente gonfiore successivo al trauma, vengono svolte accurate indagini per evidenziare fratture o lesioni a legamenti. Nulla. Le terapie permettono un riassorbimento del versamento nel giro di 10 gg. Il soggetto ricomincia a camminare senza dolore e senza problemi dopo tre settimane. A questo punto prova la corsa a ritmi blandi. Il dolore è talmente vivo che il soggetto deve abbandonare dopo pochi metri. Si iniziano tutte le terapie locali, senza nessun effetto sul dolore in fase di corsa. Solo dopo tre mesi dal trauma il soggetto riprende a correre. CASO 3 - Il soggetto lamenta un dolore nella zona pelvica anteriore; lo attribuisce al carico di lavoro per la preparazione di una mezza maratona, distanza che non correva da anni. Termina la mezza maratona con un ottimo risultato, aiutato da un antidolorifico preso prima della partenza. Si allena e gareggia ancora per circa due mesi e mezzo, alternando periodi di riposo di 7-10 gg. a periodi di allenamento e terapia antidolorifica tradizionale. Nel frattempo esegue tutti gli esami del caso, compresa un'elettromiografia e una risonanza: nulla. Decide di fermarsi completamente. Dopo tre mesi di stop riesce a riprendere normalmente a correre. CASO 4 - Il soggetto è vittima di una fascite plantare che viene curata opportunamente. Alla ripresa degli allenamenti dopo qualche settimana il soggetto ripresenta problemi all'arco plantare. Temendo una recidiva, si rieseguono tutti gli esami del caso che però risultano negativi e il soggetto viene invitato a riprendere gradualmente. Dopo due mesi la situazione è ancora precaria, tale da impedire un allenamento programmato. Il soggetto decide di buttare il plantare che gli era stato prescritto e di fermarsi: dopo un mese riprende normalmente a correre. CASO 5 - Il soggetto è vittima di una sospetta elongazione al soleo che viene curata con ultrasuoni, idromassaggi, massoterapia. Dopo dieci giorni si utilizza la bicicletta (1-2 ore) come mezzo allenante alternativo alla corsa (il soggetto non avverte dolore). Dopo venti giorni (la temporizzazione è dall'inizio del caso clinico), il soggetto riprende a correre, ma dopo pochi giorni il dolore si riintensifica, imponendo un'altra settimana di riposo. Dopo un mese il soggetto prova la ripresa della corsa con esiti disastrosi: dopo tre giorni di ripresa tutto sommato blanda, il dolore lo costringe a fermarsi dopo poche centinaia di metri; alla palpazione sente un dolore abbastanza netto a metà del perone, praticamente identico a quello avvertito all'inizio del caso; a questo punto è abbandonata la diagnosi primitiva e si teme una microfrattura, ma le indagini (radiografia, risonanza magnetica) sembrano escluderla. Dopo altre due settimane di terapie varie la situazione è la seguente: il soggetto non avverte nessun dolore a camminare, a pedalare, a saltellare sul posto (!) e a eseguire qualunque esercizio muscolare senza carico, ma non appena corre il dolore si presenta quasi istantaneamente. Si valuta anche un possibile problema

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angiologico, ma il test di Ratschow è nettamente negativo; viene eseguita anche un'elettromiografia per escludere una sindrome compartimentale. Alla palpazione non avverte nessun dolore. A questo punto sospende le uscite in mountain bike e decide per il riposo assoluto (senza bicicletta e senza massoterapia): grazie anche a una terapia innovativa basata su autoinfiltrazioni, dopo dieci giorni riprende normalmente a correre. Quali insegnamenti trarre da questi casi? Vediamoli in dettaglio. Il carico - Tutti gli atleti (tranne 2, ma si tratta anche qui di un carico eccezionale!) hanno avuto l'infortunio dopo aver stabilito i loro record assoluti o per lo meno stagionali. Si può parlare non di carico quantitativo, ma di carico qualitativo. L'età - Tutti i soggetti hanno età compresa fra i 35 e i 45 anni. Forse l'età conta qualcosa, ma occorrono altri riscontri. Le terapie - In assenza di riscontri (esami negativi), le terapie tradizionalmente fisioterapiche non hanno mostrato nessuna utilità, anzi alcune come i massaggi possono aver aggravato o congelato la situazione (sono sempre un trauma). In alcuni casi sono state proposte cure assolutamente inadeguate. Molti fisioterapisti parlano ancora di laser e basta, non sapendo che un laser a infrarossi per certe patologie è solo acqua fresca (e soldi buttati…). L'intervento di un serio professionista che possa procedere anche per esclusione (in base a esami anche sofisticati) è l'unica garanzia di risolvere il problema nel minor tempo possibile. La bicicletta - Anche in questo caso ci sono più controindicazioni che indicazioni. Andare in bicicletta per mantenere l'allenamento in soggetti allenati alla corsa non è di molta utilità: per avere uno stimolo allenante occorre impegnarsi a tal punto che comunque si stressano le parti soggette a problemi. Le cause - In almeno tre casi su cinque era presente un edema, anche se di modesta entità, una volta guarita la patologia d'innesco. Può darsi che esistano microcause che, interessando terminazioni nervose, esaltino il dolore, pur risultando invisibili alle indagini. In sostanza la definizione di stress reaction, tipica della parte ossea, può essere generalizzata a condizioni in cui l'organismo reagisce a un sovraccarico con una patologia reversibile e con una sintomatologia dolorosa di allerta. Il riposo - Si è rivelato in tutti i casi l'arma vincente. In particolare non si deve: a) commettere l'errore di riprendere a correre nel momento in cui si sente ancora un dolore che vada oltre la soglia del fastidio. b) utilizzare strumenti alternativi di allenamento (bicicletta, pesi ecc.) che comunque provochino uno stress alle parti interessate; c) evitare anche interventi fisioterapici (come i massaggi o l'elettrostimolazione) che contribuiscano a stressare la parte dolente. Il riposo deve essere cioè assoluto: correre su questo tipo di patologie equivale a raddoppiare o triplicare i tempi di guarigione.

Infortuni: le sindromi neuropatiche

Abbiamo già parlato della sindrome invisibile da carico. Continuando il discorso sugli infortuni che evidenziano poco o nulla ai normali controlli (radiografia, ecografia, risonanza ecc.), è da tenere in considerazione l'intervento di un fattore nervoso. Tradizionalmente lo sportivo pensa a una patologia come muscolare, ossea o tendinea, mentre in realtà si dovrebbe considerare anche l'aspetto nervoso, cosa che di solito si fa solo con la sciatalgia. Il principio delle sindromi neuropatiche è lo stesso: una modesta alterazione anatomica (come una protrusione discale, anche leggera, nella sciatalgia) provoca un dolore decisamente sproporzionato con l'entità di ciò che si rintraccia. Il motivo è molto semplice: se il fattore perturbante interessa, direttamente o indirettamente, una terminazione nervosa, si ha un dolore molto vivo anche se il fattore in sé è modesto. Per citare una patologia già nota, ricordiamo la sindrome da camminamento che colpisce diabetici, alcolisti e soggetti denutriti. Uno sportivo sollecita oltre misura il proprio apparato locomotore e ciò simula quello che è una sollecitazione normale in un organismo compromesso (sovraccarico). Alcune delle cause delle sindromi neuropatiche sono certe:

• i traumi causati dalle scarpe • i traumi diretti • edemi o ematomi locali

La prima causa può produrre problemi soprattutto al tunnel tarsale o al metatarso; i traumi diretti soprattutto sulle parti ossee, gli edemi e gli ematomi in qualsiasi punto ove per un qualunque motivo (quello più frequente è una ripresa affrettata) non si ristabiliscano le condizioni di normalità. Altre cause sono meno certe (postumi di interventi chirurgici, cause metaboliche ecc.) e andrebbero indagate caso per caso. La cura nelle sindromi descritte consiste nella rimozione della causa, nel riposo e, nei casi più lievi, in antinfiammatori e antidolorifici. Nei casi più gravi un antidolorifico (proprietà spesso presente negli antinfiammatori) può peggiorare la situazione perché consente il gesto sportivo senza rimozione della causa scatenante la patologia.

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Soffio al cuore L'aumento delle visite di prevenzione (i cosiddetti check-up) ha reso estremamente comune la scoperta di soffi cardiaci. Una percentuale elevata di soggetti adulti (sicuramente vicina al 50% di coloro che eseguono controlli periodici) evidenzia un soffio cardiaco temporaneo o permanente durante la propria vita. Nonostante ciò, il medico raramente riesce a tranquillizzare il paziente sulla probabile innocuità del fenomeno. Il caso più comune è un preoccupante "Facciamo un'ecografia per verificare se c'è qualche problema". È ovvio che un tale approccio psicologico è negativo e genera un'inutile apprensione fino al risultato finale dell'ecografia. Per capire cos'è un soffio cardiaco occorre esaminare il ciclo cardiaco. Il ciclo del cuore può essere suddiviso in fasi caratterizzate meccanicamente dall'apertura e dalla chiusura di atri (le cavità superiori del cuore), ventricoli (le due cavità inferiori) e valvole. All'inizio della sistole (contrazione) ventricolare, la contrazione dei ventricoli chiude le valvole atrioventricolari (mitrale e tricuspide) e, poiché le valvole polmonare e aortica sono ancora chiuse, il ventricolo è una cavità chiusa. La pressione sale e fa aprire le valvole aortica e polmonare e il sangue fuoriesce. La pressione diminuisce e le valvole aortica e polmonare si richiudono, terminando la sistole (che va dunque dalla chiusura delle valvole mitrale e tricuspide alla chiusura delle valvole aortica e polmonare). Inizia la diastole (rilasciamento) in cui i ventricoli sono chiusi, ma vuoti, con il sangue che fluisce negli atri aumentandovi la pressione finché si aprono le valvole mitrale e tricuspide che fanno affluire il sangue nei ventricoli, flusso aumentato dalla sistole (contrazione) atriale. Il ciclo è così completo. In corrispondenza del ciclo cardiaco vengono normalmente percepiti tre toni, prodotti dalla vibrazione delle valvole. Il primo coincide con la chiusura delle valvole mitrale e tricuspide (inizio della sistole), il secondo con la chiusura delle valvole aortica e polmonare (inizio della diastole), il terzo è associato alla fine del riempimento rapido della diastole ventricolare. Quest'ultimo tono è rilevato normalmente nei bambini e nei giovani fino ai 30-40 anni o in gravidanza, ma può essere associato anche a condizioni patologiche (ed è allora chiamato galoppo ventricolare diastolico). Un quarto tono (galoppo atriale) è in genere anomalo. I soffi cardiaci sono suoni estranei di durata maggiore rispetto a un tono fisiologico, prodotti dalle vibrazioni delle pareti ventricolari, delle valvole cardiache o delle pareti vasali. Possono nascere da flussi anomali o semplicemente aumentati. Si differenziano per tempo di comparsa (diastolici, sistolici o continui), frequenza (alti o bassi), intensità (si classificano in sei gradi, da 1 a 6 con il primo grado non sempre udibile e il sesto così intenso da essere percepito anche da uno stetoscopio di poco sollevato dal torace), durata, punto di massima intensità (punta, spazi intercostali ecc.), trasmissione (verso il collo, il margine sternale ecc.). Anche la postura, la respirazione, lo sforzo fisico e l'esecuzione di certe manovre (di Valsalva, di Muller) possono rendere percettibili o modificare i soffi cardiaci. Sfortunatamente nessuna delle caratteristiche sopradescritte consente di determinare se un soffio è fisiologico o patologico (rendendo così superflue ulteriori indagini). In questa sede ci preme sottolineare soprattutto le condizioni che possono condurre a soffi cardiaci che nulla hanno a che vedere con una patologia cardiaca. Fra tali condizioni da ricordare citiamo: a) l'aumentata gittata cardiaca (per esempio negli sportivi) b) febbre c) anemia d) gravidanza e inizio del puerperio (soffio mammario) e) ansia f) ipertiroidismo g) costituzione (pectus excavatum, sindrome della schiena dritta) h) fistola arterovenosa periferica i) ronzio venoso (flusso rapido attraverso le vene, frequente in giovani adulti sani e in gravidanza) Si deve poi rilevare che la causa di un soffio cardiaco può essere una situazione cardiaca di per sé in genere benigna come il prolasso della mitrale. Da questo breve articolo che insegnamento trarre? Se volete eseguire un check-up cardiaco è inutile sottoporsi a una visita tradizionale dal vostro medico curante, visita che non è in grado nella maggioranza dei casi di distinguere fra situazioni fisiologiche e patologiche; è sicuramente preferibile effettuare direttamente ogni anno un elettrocardiogramma (a riposo e sotto sforzo) e un'ecografia.

Alcune cause di stanchezza La stanchezza è un sintomo talmente generale che non è ovviamente possibile sviscerare il problema in un articolo limitato. In queste note ci limiteremo a parlare della stanchezza che insorge in un soggetto con le seguenti caratteristiche: a) svolge un'attività sportiva continua, anche intensa; b) l'allenamento è sufficientemente corretto da evitare problemi di sovrallenamento; c) l'alimentazione è normale;

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d) non è reduce da patologie particolarmente importanti né soffre di patologie croniche o di affezioni stagionali. e) non è in particolari condizioni di stress (lavorativo, familiare ecc.). È la condizione abbastanza tipica di molte persone che conducono una vita sana e nonostante ciò entrano in periodi di stanchezza, a volte inspiegabili. Notiamo come la specifica del punto b) sia il più delle volte superflua. Il sovrallenamento è spesso utilizzato a sproposito per mascherare cause sconosciute in atleti non professionisti che comunque si allenano tutti i giorni. Medici poco "sportivi", valutando le analisi dei loro pazienti concludono affrettatamente che alti valori delle transaminasi, alti valori di CPK, o di uremia sono sicuramente sintomo di sovrallenamento. In realtà tali valori sono da mettersi in relazione con un allenamento intenso svolto magari proprio la sera prima delle analisi. Il vero sovrallenamento ha sintomi che vanno ben al di là della semplice stanchezza, è un vero e proprio quadro patologico che raramente interessa lo sportivo dilettante (a meno che non faccia della pratica sportiva l'unica ragione della sua vita!) perché esistono una serie di blocchi esistenziali (il classico: ma chi me lo fa fare?) che impediscono il superamento della soglia di sicurezza. Tornando alla stanchezza, due sono i fattori che conviene monitorare, L'ematocrito - Un'anemia da sport (soprattutto negli sport di resistenza) può essere la naturale reazione agli allenamenti e può essere leggermente complicata da fattori stagionali e/o alimentari. Avere l'ematocrito a 38 quando normalmente lo si ha a 42 (ricordiamo che 42 è la soglia di normalità per un sedentario, ma uno sportivo può avere valori anche inferiori senza che vi sia nulla di patologico) provoca, oltre a un netto scadimento delle prestazioni, anche una sensazione di stanchezza a riposo. La sensazione è amplificata se (come spesso succede negli sportivi) la pressione arteriosa tende a valori bassi (il classico capogiro per un brusco cambio di posizione, da sdraiato a eretto). È importante rilevare che ciò che conta non è il valore assoluto dell'ematocrito, ma la sua caduta. La stanchezza insorge quando c'è una differenza negativa con la condizione di normalità. Nulla si può concludere perciò con un solo esame, occorre conoscere il valore normale, magari di quando l'atleta ha ottenuto buoni risultati. Ci sono soggetti che stanno benissimo con 41 di ematocrito (e hanno sempre 41) e altri che a 43 (hanno 46 come valore normale) si sentono stanchi e svuotati. Ecco perché è utile eseguire analisi con una certa regolarità (diciamo trimestralmente). Gli ormoni tiroidei - Anche un diminuito funzionamento della tiroide può produrre stanchezza. Mentre un ipertiroidismo è sempre una condizione patologica, un leggero ipotiroidismo (cioè valori leggermente inferiori alla norma) può non essere patologico, anche se causa sintomi poco piacevoli come stanchezza e aumento di peso corporeo. L'ipotiroidismo leggero può dipendere dall'età o anche da un regime alimentare controllato che porta l'organismo a risparmiare sul metabolismo. Per sapere come funziona la tiroide occorre inserire nelle analisi anche il controllo di FT3, FT4 e TSH. Anche in questo caso è utile avere un riscontro con una situazione di normalità precedente.

La tallonite "Tallone" è un termine del linguaggio comune che non indica un'unità anatomicamente semplice. Parlare di tallonite è come parlare di "testite" nel caso di dolori al capo. Non ha perciò senso "curare una tallonite". Occorre capire qual è la causa del dolore e intervenire di conseguenza. Si può trattare di borsite, di tendinopatia inserzionale, di fascite plantare, di frattura da stress. Proporre soluzioni (sicuramente un atteggiamento poco professionale) senza conoscere la causa può avere effetti decisamente negativi. Infatti le varie patologie possono avere cure completamente diverse. Se il litotritore può essere indicato in una tendinopatia con calcificazione, sicuramente è deleterio in una frattura da stress! Da un punto di vista pratico un dolore al tallone può essere gestito con un periodo di stop di 15 giorni, monitorando la situazione dopo 5-7 giorni. Nei casi migliori la situazione è evoluta spontaneamente verso la guarigione dopo la prima settimana. Nel caso di permanenza del problema dopo 15 giorni, è opportuno rivolgersi allo specialista ortopedico che in base alla diagnosi affronterà il problema a dovere. Ogni terapia di contenimento rischia di aggravare il problema. Gli antinfiammatori e gli antidolorifici sono controindicati (possono essere usati, ma a riposo) perché sopprimendo il dolore, consentono un carico che non è detto che la struttura possa reggere (pensiamo a una frattura da stress). Cercare di correre ugualmente con talloniere (al silicone) o con fasciature di scarico spesso si risolve in un disastro perché il potere scaricante è comunque minimo in condizioni di impegno sportivo intenso. Con un plantare fatto ad hoc le cose potrebbero migliorare, ma prima occorre riportare il tallone in condizione di normalità e per farlo serve il riposo e la comprensione della causa scatenante il problema.

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Le tendiniti Questo articolo è generale, ma è stato scritto pensando soprattutto a quella che è la tendinite più comune del runner: quella al tendine d'Achille. Infatti per tendiniti in altre sedi di solito il paziente ricorre se non al medico, almeno al fisioterapista. È invece incredibile come per le patologie riguardanti il tendine d'Achille sia comune un atteggiamento "fai da te", come se fosse inevitabile soffrirne e inutile intervenire, visto che "tutti quelli che corrono ne soffrono". Le patologie del tendine sono di diversa natura ed è opportuno una diagnosi corretta per poter intervenire adeguatamente. Si parla di peritendiniti quando è interessata solo la guaina del tendine, di tendiniti quando si è di fronte a una patologia che interessa il tendine in toto, ma è di natura acuta e di tendinosi quando la patologia è ormai cronica. Contrariamente alla credenza comune, le patologie in -osi sono più gravi di quelle in -ite (l'artrosi è più grave dell'artrite), perché le prime sono associate a uno stato ormai cronico e degenerato della struttura (irreversibile), mentre le seconde sono, almeno in teoria, reversibili. L'esame chiave per le patologie del tendine è l'ecografia che oltre a rilevare lo stato del tendine può evidenziare anche calcificazioni. Un metodo alternativo di valutazione delle patologie tendinee utilizza il livello di gravità della patologia stessa. Occorre molta attenzione nell'usarlo perché certi tendini (come il rotuleo) possono dare sintomatologia modesta che induce a trascurare il problema con conseguente cronicizzazione della patologia. Livello 0 - La patologia consente di correre normalmente, si manifesta al termine dell'allenamento, ma in genere scompare entro l'allenamento successivo. Terapie preferite in questa fase sono il ghiaccio (fondamentale e utilissimo), le pomate (la cui utilità è del tutto da provare e sono uno dei casi classici in cui anche la medicina tradizionale propone farmaci che non soddisfano la legge di guarigione totale), i cerotti antinfiammatori. Livello 1 - Come il livello 0, ma è necessario l'uso di antinfiammatori sistemici (per bocca) per risolvere la patologia entro l'allenamento successivo. Poiché l'impiego degli antinfiammatori non può essere prolungato all'infinito è necessario considerare il livello 1 come stato provvisorio che necessariamente evolve verso il basso (guarigione) o verso l'alto verso livelli più critici. Livello 2 - La patologia non scompare entro l'allenamento successivo. È necessario intervenire con riposo e/o terapie fisioterapiche. Si legga Il fisioterapista per comprendere come idromassaggi, ultrasuoni, laser a infrarossi, ionoforesi ecc. spesso sono palliativi che sfruttano l'effetto tempo per arrivare alla guarigione. Con il solo riposo si va da un minimo di 7 gg. per le peritendiniti leggere (normalmente 15 gg.) fino a quattro-sei mesi per le tendiniti reversibili più gravi. È possibili utilizzare terapie più sofisticate (laser neodimio-Yag, tecarterapia, litotritore ecc.) che possono ridurre i tempi, ma di solito non fanno miracoli (una buona terapia può ridurre i tempi della metà). A livello 2 gli errori tipici da non fare sono: a) non eseguire accertamenti (ecografia) b) non rivolgersi a un ortopedico sportivo. L'intervento di un medico, oltre a definire esattamente i contorni della patologia, in alcuni casi risolve il problema con mesoterapia, infiltrazioni o autoinfiltrazioni (sangue del paziente infiltrato nella zona malata con cellule staminali che possono accelerare il ripristino tendineo). L'uso di cortisonici deve comunque essere considerato come del tutto occasionale in quanto i danni ai tessuti da impiego ripetuto sono ormai evidenti a tutti. Livello 3 - Il più grave che richiede l'intervento chirurgico. Un ultimo consiglio: una volta individuato il livello, agite di conseguenza: è inutile sperare nei miracoli.

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Terapie - Gli antinfiammatori Gli antinfiammatori si suddividono in due categorie: non steroidei (Fans, farmaci antinfiammatori non steroidei, il più noto dei quali è l'aspirina) e steroidei (i cortisonici). L'uso degli antinfiammatori è stato limitato sin dall'origine dai problemi gastrici che il loro uso comportava, per esempio un rischio di ulcera gastrica aumentato di dieci volte ca. Infatti i Fans tradizionali bloccano la produzione di prostaglandine, responsabili del dolore e dell'infiammazione, inibendo la cicloossigenasi, l'enzima che controlla la produzione di prostaglandine. In tal modo bloccano anche le funzioni positive delle prostaglandine, per esempio il controllo della produzione del muco gastrico che protegge lo stomaco. Dalla scoperta di P. Needleman che esistono due cicloossigenasi (1, o cox1, e 2, o cox2) e che solo la seconda è responsabile dei processi infiammatori (mentre la prima è quella che controlla gli aspetti positivi delle prostaglandine, come la secrezione del muco gastrico) è nata una seconda famiglia di Fans (celecoxib, rofecoxib), molto meno gastrolesivi. Dopo alcuni risultati promettenti, la ricerca sta pensando di utilizzare gli inibitori della cox2 anche per altre patologie, non ultimi i tumori. I nuovi prodotti (identificati con nomi commerciali come Celebrex, Artilog e Solexa) sono mutuabili attualmente solo per casi cronici; per l'acquisto è comunque necessaria la ricetta medica. L'USO - Trascurando l'azione antipiretica (posseduta da aspirina, nimesulide, piroxicam, ketoprofene), gli antinfiammatori vengono normalmente assunti per alleviare il dolore (cefalee, dolori mestruali, mal di denti, mal di schiena ecc.) o per contrastare infiammazioni (muscoli, tendini, malattie reumatiche ecc.). È da rilevare che alcuni farmaci come il paracetamolo che hanno azione antipiretica non hanno nessuna azione antinfiammatoria. Nella scelta dell'antinfiammatorio si deve considerare il principio attivo (non il nome commerciale!) e il suo dosaggio. Poiché il problema maggiore è la gastrolesività, nella tabella seguente si è tenuto conto non solo dei vantaggi, ma anche delle controindicazioni. Per esempio l'ibuprofene ha un'azione antinfiammatoria minore del piroxicam, ma provoca meno effetti collaterali sullo stomaco.

La classifica degli antinfiammatori 1 - Celecoxib, rofecoxib 2 - Naprossene 3 - Nimesulide 4 - Ibuprofene 5 - Ketoprofene, piroxicam 6 - Aspirina

La chiropratica

La chiropratica fu proposta da Daniel David Palmer (1895) che sottolineò l'importanza della manipolazione della colonna vertebrale e ipotizzò che la compressione di un nervo o di una radice nervosa a livello della colonna vertebrale può causare sintomi locali e remoti dal sito della lesione. Palmer studiò anche la relazione del bacino con torsioni vertebrali e alcuni tipi di scoliosi, codificò il trattamento manipolativo, dandogli dignità scientifica (The Chiropractor's Adjustor). Il termine chiropratica deriva dal greco (cheir, mano + praktikè, pratica); è una disciplina che cura alcune patologie con specifiche manovre (aggiustamenti) sulle vertebre e su altre strutture osteoarticolari. Lo scopo dell'aggiustamento è la rimozione delle cause meccaniche all'origine dei disturbi. La chiropratica è indicata per torcicollo, disturbi del complesso collo-spalla-braccio, dolori di schiena. lombalgie, sciatica, dolori alle articolazioni sacroiliache, alcuni tipi di cefalea ecc. Può invece essere controindicata in ernie del disco di una certa gravità. Infatti, essendo un fatto tipicamente meccanico, non può sostituire la terapia chirurgica; in altri termini è controindicata in quei casi in cui la situazione è irreversibile, almeno meccanicamente parlando. Quando ricorrere alla chiropratica - Poiché teoricamente basta una minima alterazione delle strutture delle vertebre e/o un loro minimo spostamento per creare una compressione o uno stiramento diretto o indiretto del midollo spinale, dei nervi e/o delle formazioni vascolari che passano tra le vertebre, molti dolori indefiniti o le cui cause sono sconosciute potrebbero essere curati con la chiropratica. Occorre però un atteggiamento scientificamente corretto e considerare la chiropratica come una delle possibili terapie e non la sola possibilità terapeutica. In realtà esistono molte altre subdole cause

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che possono giustificare dolori a prima vista inspiegabili: riportare ogni problema a un'alterazione dell'equilibrio della colonna vertebrale è un passo arbitrario che il serio chiropratico non deve fare. Infatti in chiropratica la diagnosi è fondamentale. Si esamina attentamente la colonna vertebrale e il bacino mediante esami radiografici, ortopedici e neurologici. In base ai riscontri il chiropratico deciderà se intervenire o meno. Molto meno professionale è l'atteggiamento di chi vuole estendere procedure chiropratiche alla cura di patologie che non interessano direttamente l'apparato locomotore, sostenendo (ma non esistono prove scientifiche in merito) che comunque un'alterazione a livello della colonna vertebrale può creare problemi di svariata natura. Anche in questo caso il delirio di onnipotenza del terapeuta (che ha ottenuto buoni successi in un campo comunque ristretto) porta a un ingiustificato allargamento del suo orizzonte operativo.

La manipolazione Osteopati, chiropratici, massaggiatori, fisiokinesiologi ecc. sono terapeuti che utilizzano le proprie mani per risolvere i problemi del paziente; appare cioè logico riunirli in un'unica grande categoria: i manipolatori. In mezzo a una tale varietà di personaggi è necessario usare alcune semplici avvertenze per scegliere bene. Effetto tempo - Se lo utilizzate a scopo curativo, verificate che non vi propini la classica serie di dieci sedute. Una terapia quando funziona, di solito funziona da subito. Diluire una terapia in dieci sedute (diciamo due settimane) vuol dire sperare che il tempo faccia la sua parte e guarisca (più della terapia!) il malanno. Delirio di onnipotenza - In genere il soggetto non ha competenze mediche sofisticate, ma, nonostante ciò, molti manipolatori vanno oltre le loro competenze e decidono di curare tutto, come veri e propri santoni. Diffidate di questi personaggi. Alcuni esempi classici sono il massaggiatore che pretende di curare tendiniti o peggio distrazioni e strappi con un massaggio; l'osteopata che con aria trionfante annuncia, ancor prima di aver visitato il paziente, che lo rimetterà in sesto con qualche manipolazione; il chiropratico che qualunque sia il malanno conclude che si tratta di un problema di masticazione (!). Effetto scenico - Diffidate anche da tutti coloro che cercano l'effetto scenico. Il crac che molti manipolatori usano per dimostrare al cliente che "qualcosa era fuori posto" ha scarse basi scientifiche. Per convincersene provate a far scrocchiare le dita della mano: ci riuscite senza essere manipolatori, eppure le vostre dita non hanno assolutamente nulla! No alla filosofia - Apprezzate quelli che umilmente si basano sulla loro esperienza; diffidate di tutti quelli che imbevono il loro operato di concetti filosofici come l'armonia interiore, l'equilibrio fra i sistemi e altre amenità simili. Concetti affascinanti, ma per nulla provati. Uso di esami tradizionali - Non si può curare nessuno senza sapere il suo reale stato. Il manipolatore che visita un paziente senza chiedergli esami tradizionali (ecografie, radiografie ecc.) è pericolosissimo. A titolo d'esempio citiamo tutti i manipolatori che in presenza di sofferenza al tendine d'Achille non chiedono un'ecografia, ma partono con le manipolazioni sostenendo che il problema può essere risolto rimettendo a posto muscoli e articolazioni. Se il soggetto ha un tendine degenerato, i suoi muscoli e le sue articolazioni tornano a posto (?), ma la prossima volta che corre, oltre a sentire ancora dolore, rischia di spezzare il suo achilleo con risultati disastrosi.

L' elettrostimolazione

L'elettrostimolazione consente di eccitare le cellule nervose che trasportano l'impulso elettrico alla placca motrice, il loro collegamento con le fibre muscolari. Viene realizzata con apparecchi dotati di elettrodi da applicare sul muscolo; l'elettrostimolatore è un generatore di corrente con impulsi a onda quadra, ma i cui parametri elettrici possono essere programmati grazie a schede che vengono semplicemente infilate nell'apparecchio. Lo scopo dei vari e sofisticati programmi è di produrre stimoli che diano origine a contrazioni fisiologiche. I risultati - Nonostante la martellante pubblicità che da qualche anno viene fatta per promuovere gli elettrostimolatori, essi non possono essere impiegati validamente su un atleta che non abbia problemi muscolari, che cioè non sia in fase riabilitativa o che non

abbia deficit muscolare (per esempio chi ha un cedimento del piede verso l'interno potrebbe provare a potenziare il tibiale posteriore). Le ragioni di ciò risiedono nel fatto che l'elettrostimolazione viene applicata (con programmi comunque complessi e molto accurati dal punto di vista tecnico-scientifico) a gruppi muscolari ben definiti. Mentre in caso di riabilitazione o di deficit muscolare i risultati sono eclatanti poiché è facile indirizzare la terapia verso questo o quel muscolo, nel caso di un atleta normale i tempi necessari per realizzare un programma completo di allenamento sono decisamente più lunghi (contrariamente a quanto pubblicizzato) rispetto a una normale seduta in palestra (dove per esempio si può ruotare fra le varie macchine allenando un muscolo mentre l'altro riposa) o ad allenamenti naturali

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come la corsa in salita. D'altro canto non ha molto senso usare l'elettrostimolatore per allenare per esempio solo il quadricipite in quanto si potrebbero facilmente creare squilibri nella muscolatura dell'atleta. Inoltre occorre notare che la seduta allenante con l'elettrostimolatore non è meno impegnativa di una seduta in palestra, sia psicologicamente sia fisicamente: scordatevi di allenarvi mentre guardate la televisione! Anche le sedute di "recupero" non ottengono i risultati reclamizzati, come è dimostrato da atleti di vertice che hanno impiegato l'elettrostimolatore (o dicono di impiegarlo) dopo i loro più importanti successi: nessuno di questi ha migliorato significativamente le prestazioni. Le controindicazioni - L'impiego esagerato dell'elettrostimolazione provoca il classico dolore del giorno dopo; la cosa è confermata da diverse ricerche a partire dal 1995. La cosa che molti non sanno è che tali dolori possono coinvolgere anche i tendini. Le controindicazioni da tenere presenti sono: donne in gravidanza problemi neurologici (anche lievi, come fascicolazioni) patologie cardiache con disturbi del ritmo (anche i portatori di pacemaker) epilessia diabete ipertensione arteriosa danni muscolari non risolti

Quando non si deve usare 1) Quando la muscolatura è tonica e si pratica regolarmente un'attività sportiva. 2) Quando diventa il surrogato di un'attività sportiva. 3) Quando si vuole dimagrire. Con l'elettrostimolazione non si bruciano significative quantità di calorie (nonostante uno dei motivi più comuni dell'acquisto sia proprio quello estetico).

Quando si può usare 1) Quando si vuole mantenere tonica la muscolatura e non si ha la possibilità (per infortunio) di praticare attività sportiva. L'uso dell'elettrostimolatore è giustificato se non si possono impiegare sport alternativi e se il periodo di stop supera la settimana. 2) Quando si deve recuperare la tonicità di uno specifico gruppo muscolare, per esempio dopo un intervento chirurgico.

Il fisioterapista L'efficacia delle terapie antinfortunistiche si misura (o si dovrebbe misurare) con una formula molto semplice:

E=1-TG/TR dove TG è il tempo reale di guarigione, mentre TR è il tempo necessario per guarire col solo riposo. Per esempio una semplice peritendinite al tendine d'Achille richiede circa 15 gg. con il solo riposo assoluto; se si decide di curarla con la terapia x e il tendine guarisce in 10 gg., si può affermare che il rendimento della terapia è del 33% (0,33). Poiché gran parte degli infortuni più comuni hanno ormai un tempo standard di guarigione (per esempio una contrattura da 3 a 7 gg. a seconda della gravità, un'elongazione da 7 a 20 gg. ecc.), è possibile realmente capire quali terapie sono efficaci e quali no. I risultati - Purtroppo si deve rilevare che gran parte delle terapie ha un'efficienza molto bassa: idromassaggi, ultrasuoni, laser a infrarossi, ionoforesi ecc. sembrano essere semplicemente un insieme di palliativi con cui si fa scorrere il tempo sperando che sia proprio il riposo a effettuare la guarigione. La stessa cosa è rilevabile anche per strumentazione più sofisticata e costosa; se si analizzano i dati delle guarigioni si scopre che non sempre è così: per una percentuale piccola di casi l'efficienza è altissima, cioè ci vuole pochissimo tempo per risolvere il problema. Senza entrare nel merito delle patologie si può concludere che: a) una terapia è veramente efficace se ha un'efficienza molto alta b) una terapia con efficienza bassa può essere sostituita dal solo riposo. L'affermazione b) non vale ovviamente per i campioni per i quali anche un giorno recuperato può essere importante; per gli amatori il costo delle cure quasi mai vale il reale tempo guadagnato (che a volte è nullo). Il ruolo del fisioterapista - Purtroppo la situazione sopradescritta è aggravata (per non dire generata) dal comportamento classico del fisioterapista. Questo articolo infatti vuole rivolgersi non solo agli atleti,

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ma anche ai fisioterapisti per sensibilizzarli alla massima professionalità. Di fronte a un infortunio, il fisioterapista o riesce a risolvere quasi immediatamente il problema (e allora siamo nel caso a) o interviene, ma poi prescrive il semplice riposo (e allora siamo nel caso b e di fronte a un fisioterapista molto professionale) o interviene, sa che la terapia ha un'efficienza comunque bassa, ma, per non perdere il cliente, prosegue comunque usando il riposo come "arma segreta". In quest'ultimo caso basta fare cicli di terapia a giorni alterni o addirittura un giorno sì e due no ed ecco che magicamente il problema in cinque sedute, cioè in dieci-dodici giorni scompare: peccato che sarebbe scomparso anche non facendo nulla! Diverso è il caso in cui il fisioterapista usa male strumentazione sofisticata che in mano ai progettisti potrebbe avere un'efficienza non trascurabile. Purtroppo se non si capiscono i presupposti fisiologici e fisici del funzionamento, spesso non basta girare due manopole, impostare un tempo o un programma per ottenere gli stessi risultati che vengono descritti in uno studio scientifico. Anche in questo caso i tempi sono solo leggermente inferiori al recupero con il solo riposo (solo che le sedute costano di più rispetto a terapie convenzionali!). La ripresa cauta - La ripresa cauta è una delle armi con cui i fisioterapisti allungano i tempi delle terapie aspettando che l'inattività (totale o parziale) faccia effetto. È abbastanza comune sentirsi dire: "Sì, puoi riprendere blandamente. Per questa settimana non fare più di un quarto d'ora di corsa lenta.". Oggi che esistono mezzi di potenziamento efficaci nel caso di recupero da infortunio (l'elettrostimolazione), una tale posizione è ingiustificata per due motivi: a) spesso la patologia si prolunga per un carico (non allenante) su una situazione non ancora risolta; b) scientificamente un'unità fisiologica sana è in grado di espletare funzioni normali. Chi si allena tutti i giorni e prova ancora dolore facendo solo qualche chilometro, che corre a fare? È evidente che il problema non è risolto, non è possibile riprendere un allenamento serio e il carico (anche se lieve) non concorre certo a risolvere l'infortunio. Se si ha l'influenza si sta in casa per una settimana: quando si è guariti e si esce, si è nelle condizioni di fare una vita normale, non è necessario prendere mille precauzioni (se servono, è meglio stare ancora al caldo!). Come curarsi - Dopo queste considerazioni si comprende che l'atteggiamento da tenere nei confronti del fisioterapista è il seguente: a) farsi documentare sulla prognosi a riposo del problema (per esempio 20 gg.) b) farsi documentare sul ciclo di terapia e sui tempi della terapia. Il tempo della terapia deve essere quello per una ripresa funzionale completa, non parziale (quella ripresa funzionale completa che si avrebbe con il riposo). Se tali tempi non comportano un reale guadagno temporale, preferire il riposo. Il motivo dell'ultima affermazione non è solo economico. In presenza di un infortunio esiste spesso un sovraccarico; curando la parte infortunata la si porta in condizione di riprendere "prima" che il resto dell'apparato "sportivo" abbia assorbito il sovraccarico, predisponendosi a ricadute.

Ghiaccio e infortuni In genere si parla di crioterapia. Il termine può non essere felice perché sembra che il ghiaccio possa guarire. In effetti non è così: può bloccare il fenomeno infiammatorio e la cosa non sempre è positiva. Nella fase acuta di molti infortuni il ghiaccio blocca le conseguenze dell'infortunio stesso, mentre nella fase cronica (per esempio un'infiammazione tendinea) può migliorare la prognosi solo se l'infiammazione è molto lieve. In caso di infiammazioni gravi il bloccarne la normale evoluzione significa alterare anche il ripristino della situazione di normalità. Per chiarirne una volta per tutte l'impiego, il ghiaccio si usa: a) su un infortunio acuto b) su un infiammazione.lieve Come si deve applicare il ghiaccio, quante volte e quando? Quando - Il ghiaccio non va applicato sulla parte dolente prima dell'esercizio fisico, quando quest'ultimo è compatibile con l'infortunio. Se si applica prima, si raffredda la parte infortunata (per esempio un tendine), ma per contatto si può raffreddare anche qualche parte muscolare, ingenerando potenzialmente nuovi problemi. Il ghiaccio va applicato dopo l'esercizio fisico, cioè a riposo. Come - Esistono diverse teorie. Chi usa una borsa del ghiaccio, eventualmente appoggiata su una pezza leggera per evitare il contatto con la pelle, chi usa un cubetto di ghiaccio da sfregare sulla parte infortunata fino al completo scioglimento. Il primo metodo ha il difetto di provocare solo una modesta diminuzione della temperatura della zona infortunata; il secondo quello di essere troppo rapido (e a volte troppo traumatico). La soluzione migliore consiste nell'impiego dei ghiacci sintetici racchiusi in contenitori di plastica sufficientemente fini da raffreddare realmente e al tempo stesso sufficientemente spessi da poter essere usati a diretto contatto con la pelle. Quante volte - La terapia può essere ripetuta un paio di volte al giorno.

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La prevenzione degli infortuni Molti runner corrono, corrono, corrono senza mai porsi il problema dell'infortunio. Vivono nell'assurda convinzione che a loro non toccherà mai o che se succederà, basterà rivolgersi a un qualunque terapeuta per risolverlo in poco tempo. La prima posizione è assurda: chi pratica sport sa che non è immune da infortuni. Personalmente posso dire di essere stato fortunato perché in trent'anni ho avuto solo quattro o cinque infortuni veramente seri, fra cui due operazioni, al rotuleo (basket) e al tendine d'Achille (corsa). Per infortunio serio intendo quello che blocca almeno per 20 gg. la normale pratica sportiva, innescando i processi di deallenamento tanto temuti da chi ricerca un allenamento scientifico. Altri meno fortunati di me quasi annualmente hanno un periodo di stop. Quindi:

se fai sport sai che prima o poi ti infortunerai. La strategia migliore è rimandare il più possibile quel momento. Per farlo occorre sapere come si fa. Spesso ci si preoccupa delle scarpe, del terreno su cui si corre, del tipo di allenamento ecc. In realtà l'esperienza ha dimostrato che le cause d'infortunio sono diverse decine e, sorpresa, quelle più gettonate spesso non sono le più importanti. Consideriamo per esempio le scarpe. Un runner che si allena tre volte alla settimana facendo una decina di km per volta e che corre con un qualsiasi paio di scarpe di marca non può attribuire un eventuale infortunio alle scarpe. Sì, correrà male, sarà pronatore o supinatore, ma molti pronatori o supinatori con quel carico sportivo corrono tranquillamente per anni con scarpacce ben peggiori di quelle del nostro amico. Per cui non fermatevi alla spiegazione più banale, ma cercate di verificare se "regge". Spesso infatti le cause sono più d'una, concomitanti. Per questo è importante conoscerle tutte. Per esempio chi ragiona in modo astratto e senza competenze è spesso portato a ritenere che un infortunio sia dovuto a un deficit muscolare (devi rinforzare i muscoli!); in realtà, come sottolineano i migliori ortopedici sportivi, non è il deficit muscolare responsabile dell'infortunio bensì il fatto che l'atleta abbia corso con i muscoli stanchi, cioè dal mancato recupero muscolare. Apprezzate la differenza. Se io attribuisco l'infortunio al deficit, andrò in palestra mi rafforzerò (ammesso che sia possibile, cioè che la mia muscolatura non sia già al top), ma poi, seguendo lo stesso piano di allenamento, continuerò a eseguire sedute di allenamento con i muscoli più forti, ma sempre stanchi e quindi non potrò che infortunarmi nuovamente. Per discutere la seconda posizione di chi ritiene banalmente gestibile un infortunio (cioè che un qualunque terapeuta vada bene). vediamo un caso dalla pratica. Una delle ultime e-mail (in rosso le omissioni per motivi di privacy e per... censura): Sicuramente devo ringraziarti, perché grazie ai tuoi consigli sul sito riguardo le tendiniti ho insistito con l'ortopedico affinché mi prescrivesse una ecografia. Ho davvero verificato una realtà incredibile. Te la racconto perché credo sia davvero importante fare sapere a tutti cosa avviene in giro.Dunque ad agosto ho capito che il mio tendine sinistro non andava e che era meglio fermarsi e indagare a fondo. Il problema, adesso l'ho capito e tu me l'hai ripetuto nella mail, avevo corso troppo e stancato i muscoli... Comunque... Mi sono rivolto ad un ortopedico considerato nel (zona geografica) un vero esperto di problemi del piede. Tralascio cifre spese [importante ma non troppo] Appena visitato mi ha detto che avevo un varismo al ginocchio sx molto pronunciato e che era logico il mio infortunio. Cure: 1. rottura del ginocchio, inserimento di cuneo per raddrizzare ossa, 2 mesi di rieducazione 2. indispensabile uso di plantare Gli ho risposto che per l'intervento aspettavo... e memore dei tuoi suggerimenti gli ho chiesto se non era il caso di fare una ecografia... <Voi podisti avete fretta>...mi ha risposto il professorone. <Facciamo un plantare...10 sedute di laserterapia e poi vedrà che riprende a correre> Ovviamente il plantare lo si doveva fare presso un negozio di sua fiducia e le sedute di laserterapia presso uno studio di un fisioterapista ben preciso. Gli ho detto che secondo me la laserterapia era <acqua fresca> e che il plantare andava fatto da un architetto di qualità superiore. Mi ha guardato come per dire <E tu che bip ne sai? lascia fare l'ortopedico a chi fa l'ortopedico> e poi mi ha risposto secco: <Per il plantare lo studio direttamente io, per la laserterapia è senz'altro indicata. Non certo la mesoterapia, invasiva e fuori moda> Ma una cura o metodo medico possono andare <fuori moda?> Mah io sono un informatico! Non saprei... Risultato : Ho fatto il plantare. <Lo studio direttamente io!!> Una palla. Sì, l'ortopedicone era presente in negozio, ma alla fine mi hanno fatto un calco e poi il plantare in base allo stesso. Nessuna <personalizzazione>. Costo del plantare? Presto detto: 280.000.

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E già li mi stavo a bippà. Erano passato 15 gg. ed il male non passava. <Facciamo un'eco?> . <Ah ma lei non la vuole capire. Semmai facciamo una risonanza, comunque mi ascolti faccia il laser> <Risonanza? Ma la risonanza non la si fa per vedere in profondità ginocchia, caviglia etc. Per i tendini non è meglio un'eco?> Dentro di me avevo deciso che era ora di mandare a bip il professorone e rivolgermi a qualcun altro. Mi sono rivolto allora al centro di medicina dello sport di città. Lì la mesoterapia è la base!! Altro che fuori moda. <Facciamo un'eco?> ... <sì, sì ... ma impostiamo 4 sedute di mesoterapia e cosi lei potrà riprendere a correre>. <Voglio fare un'eco!!!!!!!!!> <OK OK la può fare qui da noi. Costa 110.000.> <Non me ne frega niente! Voglio fare l'eco subito > Fatta l'eco! Se ti interessa ti manderò il referto preciso. In sintesi. <Lo studioecografico del tendine d'Achille evidenzia a sinistra accentuazione dell'alone anecogeno periferico al tendine in corrispondenza dell'inserzione calcaneare Il quadro ecografico è suggestivo di entesite del tendine d'Achille di sinistra e tendinosi parziale con peritendinite del tendine d'Achille destro. Si consiglia riposo assoluto> Mi è stato spiegato che l'alone anecogeno significa rotture di fibre è che era proprio il caso di fermarsi!!! <Però facciamo mesoterapia. Guarirà prima> Fatta mesoterapia! Dolorrrrrrossssissssima! Benefici! Secondo me scarsi per non dire nulli. 70 gg dovevo stare fermo e 70 gg sono stato fermo. Ho fatto bici e nuoto. Io NON so stare fermo. E quindi probabilmente ho rallentato la guarigione. Il nostro amico ha sicuramente commesso una serie di errori, sintetizzabili nel fatto che non ha avuto fino in fondo il coraggio di essere il primo medico di se stesso. Una corretta gestione del problema richiedeva: a) periodo di stop assoluto (nel mio libro sugli infortuni è indicato per un problema grave al tendine d'Achille 20 gg.); b) durante tale periodo assunzione per qualche giorno di antinfiammatori (attenzione: non a scopo curativo, ma informativo per verificare la gravità del problema; quanto più è grave quanto meno gli antinfiammatori funzionano); c) sicuramente ecografia. Non c'è bisogno che la prescriva un Nobel per la medicina. È banale imparare quando serve una radiografia, un'ecografia o una risonanza. d) Dopo il periodo di stop tentativo di ripresa secondo il protocollo Albanesi. Non una ripresa del tipo faccio 10 km e vedo se fa male. Il primo passo del mio protocollo di ripresa prevede il primo giorno 1 km (sì, avete letto bene un chilometro): se si avverte dolore, stop, è inutile continuare. Ci si deve rivolgere a un ortopedico sportivo. Qui si deve essere in grado di dialogare con l'ortopedico conoscendo minimamente la validità delle terapie: a) plantare. NO. Notate la finezza. Il plantare non guarisce l'infortunio, semmai aiuta a prevenire una ricaduta. Tu medico, prima mi devi far guarire poi, si parla di plantare. c) laser. SI', se non è a infrarossi (che come dice giustamente il nostro amico è acqua fresca). c) mesoterapia. Assolutamente no. È fuori moda per il semplice fatto che i rischi sono notevoli. Può essere fatta in circostanze particolari, non come routine. Per convincersene basta osservare la pelle nei dintorni del punto dove è stata fatta una mesoterapia o un'infiltrazione con cortisonici. Anche dopo settimane è biancastra, completamente degenerata. Ultimo errore. Qualunque sportivo deve imparare, con un opportuno allenamento psicologico, a "stare fermo".

Infortuni: come riprendere? L'infortunio acuto (o meglio improvviso, poiché potrebbe trattarsi anche di un aggravamento repentino di una situazione cronica) è un evento che altera la qualità della vita di chi è abituato a fare sport. In molti casi il problema è evidenziato dalle indagini del caso, in altri (sindrome invisibile da carico) no. Quest'ultimo dato è poco noto a medici poco attenti che concludono in modo affrettato che un loro paziente che non si fa più vedere è brillantemente guarito. In presenza di un infortunio improvviso occorre procedere con estrema rapidità con l'intervento di personale qualificato (fisioterapista, medico sportivo ecc.). Una volta avviata la ripresa, è opportuno stabilire una strategia di ritorno. Primo punto da sottolineare:

non ascoltate il terapeuta che vi invita a "provare" un eventuale miglioramento Un concetto che deve essere chiaro è che:

se la guarigione dall'infortunio non è totale qualunque sovraccarico rischia una recidiva

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Ci sono atleti che trascinano per mesi un infortunio che si risolveva in tre settimane. La causa è spesso l'amore per lo sport e il significato che esso ha nella nostra vita. Non poter esercitare la propria attività sportiva vuol dire non frequentare un ambiente (la palestra, il parco in cui corriamo, la pista d'atletica ecc.), non vedere gli amici, non provare certe sensazioni, non poter scaricare le tensioni della giornata. Significa dover rinunciare a eventi che si erano preparati per settimane. Significa temere di perdere il proprio stato di forma (ricordatevi comunque che con un riposo attivo, per esempio usando, se è possibile, la bici anziché la corsa, non si perde poi molto, soprattutto se non siete professionisti). Occorre mantenersi lucidi e riflettere come se fossimo noi i medici e dovessimo visitare un paziente. Con questo spirito, la strategia di ritorno deve essere questa: Fase 0 - Il fastidio non deve essere presente nella normale attività di un sedentario, deve essere completamente scomparso. Un leggero fastidio presente camminando, correndo si trasforma in una recidiva dolorosa. Fase 1 (test del chilometro) - Correte a 5'30"/km per 1 km (o 30" più lenti se valete più di 21' sui 5000). Se non sentite nulla passate alla fase 2. Appena avvertite fastidio o dolore, fermatevi e rimandate il test: non siete ancora pronti. Fase 2 (test del riscaldamento) - Correte 1 km a 5'30" + 1 km a 5' + 1 km a 4'30" (sempre 30" in più se valete più di 21' sui 5000). Come sopra, se sentite qualcosa: STOP. Fase 3 (test del lento) - Correre 6 km al ritmo del vostro fondo lento + 1 km al ritmo del 10000. Come sopra, se sentite qualcosa: STOP. Fase 4 (go!) - Dopo i 6 km di fondo lento, effettuate 500 m al ritmo dei 3000: tre minuti di sosta e, dopo il solito stretching dolce, 3 allunghi sciolti da 80 m. Se non sentite nulla, potete ricominciare con un programma di allenamento (che evidentemente dipenderà dalla durata della sosta). Le varie fasi possono essere provate una al giorno, successivamente. In caso di stop si deve aspettare due o tre giorni per riprovare. Un'avvertenza: non barate! Non ripetetevi: "non sento nulla" se invece è presente quel piccolo fastidio o il doloretto sopportabile. Ricordatevi che la gestione di un infortunio dà anche la vostra dimensione umana. Per quanto lo sport sia importante, un periodo di stop non può mandarvi in crisi esistenziale. Nello spirito di Perché non essere felici? si può indirizzare la propria capacità d'amare verso altri oggetti d'amore. Molti runner che l'hanno letto mi hanno confessato di essere rimasti sorpresi di come hanno affrontato positivamente un infortunio imprevisto...

La kinesiologia La kinesiologia nacque nel 1964 per opera di un chiropratico americano, George Goodheart che introdusse la relazione muscolo-meridiano, grazie alla quale era convinto fosse possibile mantenere nel tempo le correzioni delle manovre chiropratiche. Stimolando opportuni punti si ottenevano secondo Goodheart risultati duraturi nel tempo. Dalla originaria impostazione di Goodheart, la kinesiologia è evoluta in moltissime indirizzi, influenzati anche da tecniche orientali e terapie tradizionali. È pertanto difficile operare una sintesi approfondita che descriva ogni corrente. La kinesiologia ritiene che la salute sia determinata dall'equilibrio di tre fattori, rappresentati graficamente da un triangolo i cui lati rappresentano un determinato sistema del corpo umano. Ogni sistema è in relazione con gli altri due, li influenza e ne è influenzato. La base del triangolo è il sistema strutturale (articolazioni e muscoli, colonna vertebrale, piedi e bocca), campo di applicazione dei fisiatri, dei chiropratici e degli odontoiatri. Il lato di sinistra è in relazione con il metabolismo (alimentazione e organi interni) ed è di competenza dei nutrizionisti e dei medici tradizionali. Il lato di destra è in relazione allo stato psichico ed è competenza di psichiatri e psicologi. Anche per la kinesiologia è importante il concetto di equilibrio fra i vari sistemi; l'indagine ha lo scopo di stabilire la causa della disarmonia e di scoprire quel lato sia più interessato. In base a risposte neuromuscolari a opportuni stimoli, sarebbe possibile diagnosticare e curare la patologia. Funziona? - Come si vede dalla descrizione, la confusione è terribile. Molti terapeuti, vittime del più grande delirio di onnipotenza (dal quale partì lo stesso Goodheart), interpretano la kinesiologia in maniera personale o scolastica (nel senso di scuola all'interno della disciplina), facendo perdere ogni credibilità a ciò che fanno. La lista delle patologie curabili è infinita, ma anche per la kinesiologia vale la legge di guarigione totale: non esiste alcuna patologia certamente guarita dalla terapia kinesiologica. In sostanza si tratta spesso di un'ultima spiaggia in cui l'abilità psicologica del terapeuta di usare l'effetto tempo e un cambiamento dello stile di vita del paziente vale molto di più della terapia stessa. Per una valutazione corretta rimando all'articolo sui manipolatori. Alcune assurdità recuperate da siti Internet: "La kinesiologia applicata è una recente tecnica diagnostica e terapeutica, che, tramite la valutazione del tono muscolare permette di conoscere lo stato di salute del nostro organismo". Penso che nessuno dei

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lettori sia così scarso da non capire che il tono muscolare è influenzato più dall'esercizio fisico che dallo stato di salute. "... praticamente ogni malattia conosciuta sia fisica che psichica può avere come origine un'intolleranza alimentare. Il test kinesiologico risulta a tutt'oggi l'unico che permetta una valutazione completa ad ampio raggio non solo delle sostanze verso cui si sia sviluppata una intolleranza, ma anche delle cause che le hanno determinate." Qui il delirio di onnipotenza è totale. Ma non hanno mai sentito parlare delle malattie genetiche, la cui UNICA origine è un'alterazione dei geni dell'individuo? "Si parte dal principio che un muscolo è nutrito energicamente da un meridiano specifico. Quando c'è dello stress, l'energia si blocca, il muscolo non è più nutrito e quindi diventa debole e cede ad una pressione minima." Qui crolla tutta la kinesiologia. Nata studiando i sedentari, se si analizza un body builder (o uno sportivo allenato) lo si troverà sempre sanissimo. Peccato che anche gli sportivi si ammalino.

Il litotritore Le onde d'urto sono onde acustiche ad alta energia generate da strumentazione elettrodinamica, elettromagnetica o piezoelettrica. A differenza degli ultrasuoni non hanno andamento sinusoidale, ma sono impulsive e hanno ampiezza molto maggiore (500 bar contro 0,5). Se vengono applicate a una parte del corpo, il passaggio dell'onda d'urto attraverso ai tessuti ha caratteristiche che sono funzione dei tessuti stessi e, pur non essendo ancora completamente chiare le cause, produce una rigenerazione dei

vasi nella zona investita. I meccanismi di azione sono due: quello meccanico e quello dovuto alla cavitazione, cioè la formazione di bolle di vapore all'interno di un fluido sottoposto al passaggio di onde pressorie che si susseguono ad alta velocità. Nei tessuti molli la permeabilità di membrana si modifica e aumenta lo scambio ionico intracellulare. Il meccanismo è simile a quello di una frattura quando si ha per reazione una stimolazione alla produzione di tessuti ossei per il ripristino della situazione preesistente. L'aumentata capillarizzazione locale conseguenza del trattamento con onde d'urto provoca una rimozione dei fattori infiammatori. Da dati sperimentali i migliori risultati si ottengono nelle zone in cui si ha il passaggio da tessuti molli (tendini o muscoli) a tessuti duri (per esempio ossa). Le onde d'urto erano già applicate negli anni '80 in nefrologia per la rottura di calcoli renali (litotrissia) e la loro conseguente emissione spontanea. In ambito ortopedico il litotritore, lo strumento che applica le onde d'urto, ebbe la sua prima applicazione nel 1991. Attualmente consente di ridurre il ricorso all'intervento chirurgico, non ha effetti collaterali, è rapido (di solito bastano poche sedute, da tre a sei). È particolarmente indicato per fibrosi o calcificazioni a livello muscolare, nelle patologie inserzionali tendinee o in quelle circoscritte da sovraccarico (epicondiliti, talloniti, fascite plantare ecc.); la risoluzione del problema è completa per il 30% dei casi e parziale per un altro 30%. Il litotritore è meno indicato nelle forme non calcifiche. Per ogni trattamento si applicano 1.500-2.000 colpi con una frequenza di 120-240 colpi al minuto per una

durata quindi che è di dieci minuti ca. Il trattamento può essere doloroso e può essere indicata un'analgesia locale o per le pseudoartrosi anche una sedazione più generale. È controindicato in pazienti con disturbi della coagulazione, tenosinoviti infette, osteomieliti, portatori di pace maker, polineuropatie demielinizzanti, epilettici.

L'osteopatia L'osteopatia nacque in America verso la fine del XIX sec. per merito del dottor Andrew Taylor Still. Il termine deriva dal greco osteon, osso + pathos, sofferenza. L'osteopatia considera l'uomo un'unica unità funzionale, nella quale i vari apparati cooperano per mantenere il benessere dell'organismo. L'osteopata cerca le disarmonie interne per risolvere i problemi del paziente, indagando quattro sistemi funzionali: il sistema strutturale (quello che tradizionalmente è costituito da ossa, muscoli e articolazioni), quello viscerale ( gli organi interni), quello cranio-sacrale (ossa del cranio e del sacro) e quello fasciale (le guaine del tessuto connettivale). L'osteopata visita il paziente dopo una normale anamnesi e l'eventuale visione di esami tradizionali; lo scopo della visita è la percezione (con il tatto) di ogni variazione dei tessuti corporei e i lievi movimenti delle varie parti del corpo. Originariamente l'osteopatia era consigliata per problemi all'apparato osteoarticolare; poi il delirio di onnipotenza tipico di molte medicina alternative ha esteso (a sproposito) il campo di applicazione a patologie (cito da un sito Internet) in cui "si riconosca una chiara origine funzionale, in pazienti di ogni età, dal neonato all'anziano, negli sportivi e nelle donne in gravidanza".

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Funziona? - Scientificamente l'osteopatia non ha basi solide; le argomentazioni di Still (ricordiamolo, risalgono al XIX sec.) sono intuizioni filosofiche (molti osteopati parlano di filosofia osteopatica) più o meno condivisibili, ma senza nessuna prova diretta. Basare la salute dell'individuo sull'armonia è un concetto affascinante, ma che non ha riscontro reale: basta pensare a tutte le patologie che: a) sono originate da virus e da batteri b) sono originate da un difetto genetico c) sono originate da una cattiva alimentazione d) sono originate da sostanze esterne all'organismo ecc. È facile convincersi che sono veramente poche le patologie dove l'armonia è alterata da qualcosa di "interno". La genetica sta smontando comunque le basi dell'osteopatia "romantica" perché dimostra che moltissime patologie sono causate da un difetto congenito:

come si può ristabilire l'armonia se non c'è mai stata? L'osteopatia non rispetta la legge di guarigione totale e spesso chi vi si affida spesso lo fa come ultima spiaggia; i risultati che si ottengono dipendono in gran parte dall'abilità del terapeuta di indirizzare il paziente verso uno stile di vita migliore ecc. I successi e il futuro - Molti osteopati in realtà non sanno nemmeno con precisione cosa sia l'osteopatia né chi l'abbia fondata (ora che lo sapete se ne incontrate uno, provate a interrogarlo...); si tratta di personaggi che hanno fatto un corso e poi lo hanno applicato con anni di esperienza. Sono cioè dei manipolatori. Alcune correnti, sensibili all'aspetto scientifico della propria professione, hanno iniziato una revisione critica dell'osteopatia, arrivando a risultati molto interessanti. Pur mantenendo il nome originario, sono riuscite a dare dignità di scienza a una disciplina dai mille volti. Quando ci si affida a un osteopata è pertanto fondamentale capire con chi si ha a che fare.

Osteopatia: il futuro Anche l'osteopatia (nell'immagine, A. Still, il fondatore della discipina), come molte discipline nate nel secolo scorso, ha spesso conservato un'adesione quasi fideistica a ipotesi e terapie piuttosto datate. È pertanto fondamentale capire che tipo di osteopata si ha davanti per sapere se si è o meno in buone mani. In sostanza ci si trova di fronte a tre personaggi: a) si tratta di un manipolatore che ha seguito corsi più o meno approfonditi, ma non ha competenze mediche e anatomiche sufficienti a gestire casi importanti. Se è modesto e non è affetto da delirio di onnipotenza, può essere un valido terapeuta per i casi di minor gravità, soprattutto se si è costruito un'esperienza notevole. b) È un terapeuta che, pur non avendo competenze mediche profonde, si pone in contrapposizione con la medicina tradizionale. In alcuni casi ha seguito e continua a seguire molti corsi di formazione, ma la preparazione scientifica di base resta scarsa. Si affida spesso a concetti più filosofici che medici, tende a impressionare il paziente con guarigioni tipo "alzati e cammina" ecc. È sicuramente il personaggio da evitare. c) Purtroppo i primi due casi costituiscono la maggioranza, ma sta nascendo una terza figura professionale, molto scientifica e soprattutto moderna. Esistono varie possibilità, tutte con un punto comune: preparazione medica buona, complementarietà alla medicina tradizionale (non contrapposizione), approccio scientifico (e non filosofico) ai problemi. In questo articolo ne descriveremo una particolarmente interessante. Il metodo di Rééquilibration Fonctionnelle nacque molti anni fa quando Roland Solère fu indirizzato dal suo maestro André Brunel a un convegno di rinomati osteopati. A fronte di un'osteopatia che prendeva tutto meno che una direzione scientifica, coerente e logica, nella quale numerosi concetti, interessanti, ma "marginali" prendevano una dimensione tale da travalicare i principi più scientifici, Solère si espresse così: "Signori, se questa è l'osteopatia, allora io non faccio osteopatia". A molti anni di distanza, dopo molteplici valutazioni positive fatte in un contesto ospedaliero e universitario, dove numerosi pazienti sono stati trattati da due insegnanti della scuola e da un allievo italiano estratto a sorte, un'Università Libera (L.U. de S., Lugano) ha deciso di organizzare il primo corso di Laurea in Osteopatia in una Facoltà di Medicina (da notare che le lauree rilasciate hanno valore in tutta Europa in base agli accordi bilaterali di Bologna del 1999 e che l'inserimento in Italia in Università è previsto dalle Normative europee a partire dal 2004). Da lì, la nuova volontà di mantenere il nome originario (anche se errato dal punto di vista semantico) e di portare avanti sia la "battaglia" dell'onestà scientifica sia l'osteopatia, certi che la ricerca scientifica seria smonterà gli errori e le falsità in malafede. Per chi volesse saperne di più: http://www.osteoref.com/it/01_osteopathie.html

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Il plantare L'uso del plantare è stato consigliato a quasi tutti i runner che calcano le strade da anni. Da una statistica che ho effettuato, su un gruppo di trenta atleti, ventisei hanno ricevuto l'indicazione di portare un plantare. Molti hanno seguito questo consiglio, salvo poi buttare il plantare poche settimane dopo averlo usato. La morale che ne ho tratto è che il plantare è spesso consigliato in tutte le patologie delle quali non si viene a capo con le terapie più blande, una sorta di panacea che tutto dovrebbe curare. Purtroppo non è così, anche perché la realizzazione di un plantare dovrebbe essere un'opera di alta ingegneria biomeccanica, mentre spesso non è che la veloce preparazione di un supporto da infilare nelle scarpe sperando che faccia il miracolo. Se provate a farvi fare due plantari per lo stesso problema, scoprirete che sono simili, ma non uguali, che molti vengono realizzati senza tener conto delle scarpe in cui devono essere inseriti e che altri vengono addirittura realizzati con materiali non idonei alla patologie. Occorre rimarcare che molto spesso un cattivo plantare non fa altro che procurare nuovi problemi. Se si aggiunge poi che per un runner correre con qualcosa nella scarpa è un supplizio, non penso che il plantare possa essere indicato in più del 10% dei casi in cui viene consigliato. Il circolo magico - Perché allora il plantare è così di moda? Perché fa parte di quell'insieme di tentativi che si fanno per curare patologie croniche o acute di cui non si conosce la causa. Chi non riesce a venire a capo di un infortunio entra in quella spirale che io definisco "magica": plantare, chiropratico, osteopata, agopuntura, medicine alternative, pranoterapeuta, santone. Ognuno di questi tentativi è giustificato (persino il santone se la patologia è psicosomatica da paura dell'avversario che in quel periodo è in gran forma...), ma solo con cognizione di causa. Se non si conosce (o si fa finta di non conoscere, come chi tenta di tutto per evitare un intervento chirurgico) la causa, rivolgersi al terapeuta sbagliato non può che aggravare la situazione, facendo perdere tempo e soldi. La serietà professionale - Il problema di fondo è valutare la serietà professionale degli appartenenti al circolo magico. Come si fa? Se una persona sana va da un podologo che vende plantari o da un chiropratico, lamentando sintomi di una particolare patologia, quanti richiedono esami per valutare la gravità e quanti invece partono subito in quarta dicendo che è necessario un plantare o è necessaria una manipolazione? Un professionista è veramente tale quando ammette i limiti della proprio campo d'azione; purtroppo ci sono specialisti che pretendono di curare ogni patologia con la loro disciplina. Chi ha un minimo di raziocinio capisce che la loro serietà professionale è pari a quella di un ginecologo che di fronte a un paziente cinquantenne (UOMO!) che lamenta un leggero stato depressivo sentenzia: "non si preoccupi, con una buona cura per la menopausa va tutto a posto". In particolare diffidate di chi: a) vi propone un plantare solo dopo aver rilevato l'appoggio del piede; b) vi propone un plantare computerizzato "perché il computer non sbaglia"; c) vi promette che con successive modifiche il plantare diventerà perfetto. Le modifiche successive vogliono solo dire che il metodo iniziale non funziona. L'ultima generazione - Ogni anno escono plantari di nuova generazione, terminologia abusata per dire: sì, quelli precedenti non funzionavano, ma questi... In realtà continuo a vedere atleti che: a) buttano il plantare dopo averne capito l'inefficacia; molti guariscono anche senza plantare, altri no e smettono. In entrambi i casi il terapeuta non rivedendo il paziente si convince in buona fede che ha fatto un ottimo lavoro. b) Continuano a usarlo avendo problemi, convinti dal carisma del terapeuta che "senza plantare sarebbe peggio". I casi indicati - Esistono però alcuni casi in cui il plantare dovrebbe essere impiegato. Nel caso di atleti che iniziano l'attività, il plantare è sicuramente indicato quando lo specialista rileva che un infortunio è strettamente correlato a un'anomalia anatomica; ci si potrebbe chiedere che differenza c'è fra un atleta che inizia e un atleta che corre da anni se entrambi presentano lo stesso problema (piede cavo, piede piatto, eccessiva pronazione ecc.). La risposta è semplice: il podista che corre da anni con un problema anatomico (o presunto tale) ha sicuramente dei meccanismi d'equilibrio che lo hanno preservato dagli infortuni; se gli arriva una fascite plantare non avrebbe molto senso attribuirla alle sue anomalie anatomiche e cercare di risolverla con un plantare, in quanto le cause sicuramente sarebbero altre: tolte quelle, ritornerebbe a correre senza problemi. L'altro caso in cui il plantare è certamente giustificato è nella fase di riabilitazione dopo un infortunio traumatico o un intervento chirurgico. Infatti il plantare consente di moderare il carico, consentendo un recupero graduale.

Infortuni e riposo Nella maggior parte degli infortuni che riguardano lo sportivo, e chi corre in particolare, alle normali terapie viene associato il riposo. In caso di infortunio è infatti fondamentale stabilire se esso è invalidante (per la guarigione è necessario interrompere l'attività sportiva) oppure no. In caso negativo il soggetto può continuare la pratica sportiva associando le cure opportune. Giudicare non invalidante un infortunio che lo è ha come effetto l'aggravamento dell'infortunio stesso e un allungamento dei tempi di guarigione. Per non sbagliare, oltre ad affidarsi a uno specialista, basta un po' di buon senso; un infortunio deve essere giudicato invalidante se:

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a) il dolore pregiudica le prestazioni del soggetto durante l'allenamento; b) il dolore è sempre presente e si aggrava al termine o dopo l'allenamento; c) il dolore non consente di svolgere tutte le sedute dell'allenamento ottimale. Attualmente il riposo è ancora il miglior mezzo terapeutico per risolvere un infortunio invalidante, in quanto ghiaccio, antinfiammatori, interventi del fisioterapista possono accorciare i tempi di guarigione, ma non sono in grado da soli di guarire in tempi rapidi un infortunio, se non di lieve intensità. Il riposo invece è di per sé in grado di guarire ogni patologia reversibile (per quelle irreversibili c'è solo l'intervento chirurgico). Pertanto può essere definito come terapia di primo livello; terapie di secondo livello sono quelle (come il ghiaccio o l'elevazione dell'arto) che hanno lo scopo di accorciare i tempi di guarigione; terapia di terzo e ultimo livello deve essere considerato l'intervento chirurgico. In caso di infortunio è necessario stabilire esattamente quali livelli usare e come utilizzarli. Il riposo deve avere una durata tale da risolvere effettivamente il problema, le terapie di secondo livello devono veramente ridurre i tempi di guarigione e non fingere di risolverlo solo perché aiutate dal riposo. Per comprendere se una terapia di secondo livello è utile, valutate l'impatto immediato che ha sull'infortunio: se un'applicazione non riesce a migliorare la situazione anche dieci non basteranno. Siate realistici: il miglioramento deve essere immediato; anche lieve, ma deve esserci. Il ghiaccio, quando applicato, migliora effettivamente (anche se temporaneamente) la patologia; non altrettanto può dirsi di pomate o altri rimedi classici come ionoforesi, ultrasuoni o laser a bassa potenza (la gran parte di quelli che sono in circolazione presso i fisioterapisti). Anche la manipolazione della parte colpita deve essere valutata non solo alla luce di possibili controindicazioni, ma soprattutto alla luce dei benefici: troppi infortuni non vengono risolti perché la scarsa professionalità del terapeuta arriva a una conclusione semplicistica che rientra sempre nel suo ambito di competenza: se vi rivolgete a un massaggiatore, massaggerà tutto (c'è gente che massaggerebbe uno strappo!); se vi rivolgete a un chiropratico vi dirà che è tutta colpa della schiena o dell'anca, un atteggiamento estremamente semplicistico dal punto di vista scientifico; se vi rivolgete a chi fabbrica plantari in cinque minuti vi farà un bel plantare (quanti plantari sono stati poi buttati!). L'errore è sempre lo stesso: scarsa professionalità che vuole ricondurre tutto a ciò che si sa perché si è troppo ignoranti per discutere d'altro, vagliando tutte le ipotesi. Quanto deve durare il riposo? Visto che la terapia degli infortuni invalidanti ha come componente essenziale il riposo, è importante definirne le caratteristiche. La durata deve essere tale da consentire la completa scomparsa dei sintomi dell'infortunio. Riprendere quando l'infortunio si è attenuato al 50% non ha senso perché si rischia una ricaduta (come nel caso di una peritendinite che si risolverebbe in quindici giorni: riprendere dopo una settimana vuol dire trascinarsi il problema a volte per mesi). In ogni caso se dopo una settimana non si notano miglioramenti, è il caso di effettuare tutti gli esami del caso (radiografia, ecografia, risonanza ecc.) per capire esattamente qual è il problema: ricordatevi che (purtroppo) esistono anche gli infortuni irreversibili e un terzo livello operativo (l'intervento chirurgico).

La scelta del terapeuta

Una mail che ho ricevuto ha posto una domanda interessante: quando si è infortunati, come si fa a scegliere un terapeuta affidabile, visto che da ogni dove arrivano esperienze di runner che per banalità sono ormai ridotti come Enrico Toti? In effetti non è difficile accorgersi se un terapeuta è affidabile. Deve acquisire la massima informazione. Chi non propone un'ecografia (o, a seconda dei casi, una radiografia o una risonanza o un'elettromiografia ecc. ecc.) pecca di presunzione. Cosa gli costa proporre qualche esame in più? Per esempio alcune tendiniti inserzionali dipendono dall'iperuricemia del soggetto. Anche se solo un 10% (alcuni dicono il 30 altri il 5) dipende da ciò, perché in presenza di tendinopatia inserzionale non si esegue un esame del sangue? Cosa costa? Come si fa a proporre un plantare senza conoscere lo stato del tendine? Faccio mettere un plantare, il runner corre e un mese dopo il tendine si spezza (già successo a un visitatore del mio sito). Magari il plantare poteva andare, ma bisognava prima verificare lo stato del tendine. Se ci si rivolge a un chirurgo che va dritto all'operazione, la sua scelta può essere effettivamente l'unica, ma si può proporre dopo aver fatto esami accurati. Per esempio se un'ecografia mostra una calcificazione al rotuleo, qualunque terapia che non risolva la calcificazione è inutile e l'operazione è inevitabile. Un altro terapeuta potrebbe dire: tentiamo con il litotritore o con il laser di potenza. Sarebbe comunque giustificato perché ha tutte le informazioni e dopo poche sedute dovrebbe indirizzare il runner verso l'operazione o (in pochi casi) avrebbe risolto il problema. Deve dare una spiegazione logica della proposta di guarigione. Questo secondo punto fa cadere l'affidabilità di molti terapeuti che confondono la causa con l'effetto. Classico il problema posturale, il problema dentale, il problema del piede ecc. ecc. Chi corre e ha avuto il problema dopo diversi mesi dall'inizio non deve confondere la causa del problema con la risoluzione dello stesso. Supponiamo che la causa possa essere uno dei problemi appena citati. Va bene, ma per diversi mesi io ho corso, quindi la guarigione della presente patologia deve farmi tornare all'inizio. Un qualunque sedentario con problemi di appoggio, di postura, di denti ecc. riesce a fare (prima di infortunarsi) diverse sedute di allenamento. Lui è sano. Ora anch'io voglio tornare sano, poi adotterò le giuste contromisure. In altri termini con esempio

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pratico: ho una tendinite. Mi propongono un plantare, un'operazione alle ginocchia per correggere un varismo, un apparecchio per la masticazione, migliaia di sedute in palestra per potenziarmi. NO! Prima devo guarire la tendinite, magari sospendendo l'attività. Il terapeuta, se è tale, deve curarmi la patologia. Poi si preoccuperà del mio futuro atletico, consigliandomi in merito. Con questo approccio si evita di spendere tempo e soldi. Cosa succede (come avviene in molti casi) se dopo aver messo il plantare, fatto l'intervento, portato l'apparecchio il problema persiste? Alcuni rispondono che per la corsa vale la pena tentare. Ma allora perché non andare a Lourdes (o meglio Medjugorie le cui azioni sono in rialzo)? Deve fare una proposta concreta. Qui entriamo nel concetto di efficienza di una terapia, definito come "quanto tempo fa guadagnare rispetto al semplice riposo". In altri termini se una peritendinite con il riposo assoluto guarisce in 20 gg. con la terapia x guarisce in 18 gg., guadagno 2 gg., l'efficienza è del 10% (2/20). Quelle che nel mio libro L'infortunio sulla corsa chiamo terapie "SOFT" (ultrasuoni, laser a infrarossi, ionoforesi ecc. ecc.) hanno tutte un'efficienza bassissima. Il fisioterapista cosa fa? 10 sedute di ultrasuoni (in acqua perché funzionano di più!!!) un giorno sì e uno no (è pieno di lavoro), ma "non correre, mi raccomando". Dopo venti giorni sono guarito e il fisioterapista è un DIO. Gli mollo 150 euro e sono felice. Peccato che con venti giorni di stop sarei guarito lo stesso.

Lo stretching Lo stretching è sicuramente una disciplina difficile: sono state scritte decine di libri e ancora non è stata detta la parola fine. Recentemente si sta anche diffondendo una macchina da palestra per l'esecuzione di tutti gli esercizi di stretching. Il grosso problema (che anche il semplice uso della macchina senza un valido istruttore non risolve) è l'esecuzione degli esercizi. I libri infatti possono avere delle illustrazioni o dei commenti testuali del tipo "la posizione di allungamento va raggiunta lentamente e mantenuta fino a quando si ha la sensazione che il muscolo regga bene la tensione raggiunta" (la frase che uso nel mio libro); le videocassette possono mostrare pure dei filmati. Nonostante ciò, continuo a vedere persone che eseguono lo stretching male (molti lo eseguono anche al momento sbagliato e con tempi errati): gli errori sono talmente tanti che non è facile correggerli con poche indicazioni. L'errore logico - La proposta dello stretching a ogni occasione deriva da un errore logico abbastanza comune:

traslare su individui sani indicazioni valide per individui che non lo sono. La carnitina nei cardiopatici è eccellente, nelle persone normali non ha grande utilità; in chi è anemico il ferro può essere utile (se l'anemia è causata da carenza marziale), in una persona con sideremia normale l'assunzione di ferro può essere dannosa ecc. Per chi ha subito un'immobilizzazione articolare o per qualche altro motivo ha la viscoelasticità del tendine diminuita è chiaro che lo stretching ha una finalità terapeutica; in individui normali è altrettanto ovvio che tale elasticità non si può aumentare oltre certi limiti, anzi superati certi confini si ha un danno. Altrettanto ovvio che se la struttura è lesionata fare stretching non fa certo bene. Contrariamente a quanto pensano molti, non può essere curativo di lesioni che prescindono dalla diminuita elasticità (infiammazioni, calcificazioni, degenerazioni tissutali ecc.). Premesso tutto ciò, dobbiamo chiederci: Serve? - Fino a un anno fa ero convinto che fare stretching fosse difficile, ma che si potesse trovare un giusto approccio. Avevo anche ideato un test che riporto: "Per capire se eseguite bene lo stretching provate ad associare all'esecuzione che state attuando una descrizione di poche parole, per esempio "una tensione al limite del dolore", "un fastidio piacevole", "uno sforzo impegnativo" ecc. Poi applicate la stessa definizione a una stretta di mano: se la definizione calca a pennello ed è positiva, state lavorando bene. Per esempio "una scioltezza energica" è OK perché indica una stretta di una persona estroversa e vitale; "un blando stiramento" indica una stretta magari lunga, ma flaccida, "una tensione fastidiosa" indica una stretta energicamente seccante, "una posizione innaturale" non è nemmeno tanto riferibile a una stretta di mano". In realtà le indicazioni che mi sono arrivate dalla Rete mi hanno convinto che anche per lo stretching vale il principio di non transitività fra atleti professionisti e amatori. Molti allenatori sono convinti che si possa correggere lo stile di corsa di un amatore facendolo volare. A parte il fatto che non conoscono gli studi di Minetti (1994-1995) che hanno dimostrato che non è possibile definire uno stile ottimale (vedi Area Rossa: Fino a quanto è possibile migliorare), commettono l'errore fondamentale di non capire che una cosa o si fa bene o è meglio non farla. Provate a chiedere a un terapeuta perché si deve fare stretching. La risposta più gettonata è: "per prevenire gli infortuni". "Perché si prevengono gli infortuni?" ecc. ecc. Insomma continuando con i "perché" capite che le risposte sono generiche e apparentemente logiche, ma molto superficiali. In realtà l'analisi di oltre 60 studi pubblicati negli ultimi anni sulle maggiori riviste di medicina sportiva (Area Rossa: La verità scientifica sullo stretching) rivela che:

lo stretching non previene gli infortuni, anzi può contribuire a innescarli. Gli stessi studi concordano che per l'amatore che vuole prevenire è molto più importante il riscaldamento che lo stretching. Quest'ultimo è importante per il professionista che vuole dare il meglio, soprattutto in gare e sport in cui la velocità, la potenza e l'elasticità sono importanti. Si comprende facilmente che un

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riscaldamento non è mai traumatico (al massimo è fatto male), mentre un esercizio di stretching può essere devastante se fatto malissimo. Basta leggere le e-mail che arrivano ai forum di stretching! Per chi non fosse ancora convinto, chiedo di illustrarmi il semplice esercizio di stretching del surale (quello che si fa spingendo contro un muro con una gamba avanti e l'altra tesa dietro): a) quanto deve durare? b) a che distanza deve essere il tacco della gamba davanti dalla punta di quella dietro? c) quante ripetizioni si devono fare? d) con che recupero fra una e l'altra? e) le gambe devono essere naturalmente divaricate o una in fila all'altra? f) è preferibile farlo a piedi nudi o con le scarpe? g) si deve fare prima o dopo il riscaldamento? Siete sicuri di saper rispondere a tutte queste domande? Impossibile, visto che gli stessi esperti (vedi articolo su Area Rossa) dissentono: il bello è che chi sostiene la tesi x condanna la y e viceversa. Riassumendo: Riabilitazione da interventi o blocchi della mobilità – FONDAMENTALE - Post-infortunio - MOLTO IMPORTANTE - Durante la fase acuta dell'infortunio – SCONSIGLIATO - Jogger o runner che non ricerca la prestazione al secondo - Meglio il riscaldamento scientifico (warming) - Runner che ricerca la

prestazione ottimale - CONSIGLIATO, ma solo dopo averne compreso perfettamente l'esecuzione.

La tecarterapia Chi segue gli articoli che appaiono su questo sito sa che non optiamo mai per una descrizione commerciale di tutto ciò che ruota attorno al mondo della corsa. Anche per ciò che concerne le terapie con cui tipicamente si curano gli infortuni più frequenti abbiamo adottato una linea di condotta molto prudente. Una terapia funziona quando riduce significativamente i tempi di recupero, paragonata alla terapia più naturale, il riposo. Una distrazione muscolare che a riposo richiederebbe un tempo di guarigione di 30-40 gg. è curata efficacemente se guarisce in almeno venti. In realtà quello che succede è che: a) spesso la terapia si prolunga (le classiche dieci sedute un giorno sì e uno no: 20 gg.) b) viene consigliata una ripresa blanda (altri 10-15 gg. per esempio) c) dopo 40 gg. si conclude che il paziente è guarito. Peccato che sarebbe guarito ugualmente non facendo nulla! Il confronto con la guarigione totale a riposo è pertanto la prova più dura che una terapia deve affrontare; tale confronto permette di eliminare molti strumenti di cura (il laser a infrarossi) o di ridimensionarne altri (gli ultrasuoni e la ionoforesi). Esistono terapie che vengono utilizzate in centri specializzati (vedasi il litotritore), con macchine decisamente costose (lo stesso laser neodimio-yag) che spesso non sono accessibili nei centri fisioterapici normali. È giusto pertanto farle conoscere anche per sottolineare i limiti attuali della scienza (non del commercio...) nella guarigione delle patologie atletiche. La tecarterapia (Trasferimento Energetico Capacitivo Resistivo) è una tecnica che stimola energia dall'interno dei tessuti biologici, attivando i naturali processi riparativi e antiinfiammatori. La sua ragione d'essere sta nella constatazione che ogni patologia osteo-articolare e dei tessuti molli rallenta e modifica i processi biologici che stanno alla base della riparazione del danno subito. L'idea di trasferire energia ai tessuti infortunati è comune a molte terapie (radar e Marconi terapia usano l'effetto antenna, la magnetoterapia l'effetto Faraday-Neumann ecc.), ma tutte somministrano energia proveniente dall'esterno. La tecarterapia richiama invece le cariche elettriche da tutto il corpo, sfruttando il modello del condensatore, cioè due conduttori affacciati e separati da un isolante. Se si collegano i due conduttori a un generatore elettrico di differenza di potenziale, sui conduttori si accumuleranno cariche elettriche che si opporranno alla corrente fino a ridurla a zero quando il sistema è carico. Nella tecarterapia un elettrodo è collegato a un generatore (con frequenza di 0,5 Mhz) mentre il secondo conduttore è rappresentato dal tessuto biologico. Nella zona sotto terapia si avrà un flusso di cariche con attivazione metabolica ed un effetto termico endogeno (cioè che nasce dall'interno). Se l'elettrodo mobile non è elettricamente isolato, la concentrazione di cariche avviene nei tessuti a più alta resistenza (osso e articolazioni) che fungono quindi da isolanti (contatti resistivi). Gli effetti della tecarterapia sono un aumento dell'attività metabolica con aumento della produzione di ATP (e quindi una velocizzazione della riparazione), un aumento della circolazione ematica e del drenaggio linfatico a causa della vasodilatazione da calore (e quindi una migliore ossigenazione dei tessuti e il riassorbimento degli edemi). Il vantaggio della tecarterapia rispetto ad altre terapie energetiche è che, poiché l'energia proviene dall'interno, è possibile interessare anche strati profondi, non trattabili con trasferimenti esterni di energia per i danni alla cute causati dalle energie emesse. Qual è l'efficacia? Gli studi sono ancora limitati, alcune testimonianze (atleti) ne parlano veramente bene, soprattutto per lesioni muscolari acute e traumi distorsivi. Da un'analisi di alcune ricerche universitarie sembra si possa affermare che i tempi di recupero sono all'incirca dimezzati.

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Capacità e resistenza aerobica Vi sono alcune grandezze che come terminologia e significato non avrebbero modo di sussistere autonomamente (sono o dei sinonimi o sono legate ad altre grandezze), ma gli allenatori le usano spesso (a sproposito), ingenerando grande confusione: sono la capacità e la resistenza aerobica. È errato parlare di capacità aerobica (CAE) e di definirla genericamente come tenuta ai ritmi elevati che l'atleta può mantenere per 10-20 km. La definizione non è precisa; in realtà:

la capacità aerobica indica il tempo per il quale si riesce a mantenere il ritmo indicato dalla SAN. Per un atleta di medio livello può essere di 40', per un atleta a livello mondiale arriva a 1h. Quindi la capacità aerobica è espressa come un tempo che va dai 40 minuti all'ora. Se corro i 10000 m in 40' e ho una SAN di 15 km/h, la mia capacità aerobica è di 40 minuti. Per migliorare posso: • aumentare il VO

2max

• aumentare la SAN • aumentare la CAE Aumentare la CAE non ha senso perché l'atleta riesce già a esprimersi per tutta la gara al ritmo espresso dalla SAN attuale. Se riuscissi ad aumentare la SAN a 16 km/h, mantenendo la CAE invariata (40') riuscirei a correre i 10000 a 3'45”/km cioè in 37'20”. Aumentare la SAN vuol dire implicitamente o aumentare il VO

2max o aumentare la massima percentuale di utilizzo a cui si ha concentrazione di lattato

costante. In teoria per i 10000 m dovrò lavorare sui primi due parametri, in particolare sulla SAN, cioè quella che gli allenatori chiamano impropriamente potenza aerobica. Se invece lo stesso atleta prepara una mezza maratona, è ovvio che aumentare la SAN potrebbe non essere significativo, soprattutto se la sua CAE resta la stessa. Potrebbe arrivare a una SAN di 16 km/h, correrli per 40', ma poi scadere decisamente di prestazioni su una maratonina. Si dovrà lavorare congiuntamente sulla SAN, ma soprattutto sulla CAE. Un discorso leggermente diverso vale per la resistenza aerobica.

La resistenza aerobica è sinonimo di SAE. Non ha senso dire che essa è il 75-85% della SAN, poiché la definizione è dipendente dall'atleta; è anche scorretto dire che è la velocità a cui si utilizzano prevalentemente gli acidi grassi. Infatti a ritmo di maratona il consumo di acidi grassi è del 20-25%, quindi significativo ma non prevalente. Ovviamente la resistenza aerobica è fondamentale per il maratoneta.

È questione di fiato? Troppe volte mi è capitato di vedere un runner che prima della gara si inala nel naso un paio di spruzzatine o, a mo' di asmatico, inala dalla bocca un farmaco, presumibilmente un broncodilatatore. Altri invece preferiscono assumere decotti di efedra per "migliorare il fiato". Queste pratiche, oltre a essere vero e proprio doping, non hanno nessun fondamento scientifico. Infatti, contrariamente a quanto pensa la maggior parte dei runner,

non ci sono differenze significative negli indici funzionali respiratori fra atleti di fondo e sedentari. Già da tempo si sa che il massimo volume espirato, la capacità polmonare totale o la massima ventilazione volontaria non sono cioè fattori che possano indicare il valore atletico di un soggetto [Mahler, D.A. e al.: Ventilatory responses at rest and during exercise in marathon runners. J. Appl. Physiol, 52-388, 1982]. È ovvio che l'allenamento migliora la risposta ventilatoria e ciò in genere si traduce in un aumento della profondità del respiro e in una diminuzione della frequenza, riducendo il costo energetico della respirazione. Al di là di questo fenomeno automatico (nel senso che viene da sé con l'allenamento), non sembra che esistano tecniche che possano migliorare la situazione: visto che atleti olimpici hanno la stessa capacità polmonare di un impiegato, vuol dire che esistono molti altri fattori (cardiaci, cellulari, energetici) che mandano in crisi il sistema prima che possa diventare importante il fattore polmonare.

Colesterolo HDL e valutazione dell'allenamento Per chi volesse ripassare le informazioni sul colesterolo rimandiamo all'articolo corrispondente. In questa sede ricordiamo che: a) il colesterolo è contenuto in diverse lipoproteine che svolgono ruoli differenti: LDL (il colesterolo cattivo, perché le LDL liberano il colesterolo sulle pareti delle arterie, formando placche ateromatose), HDL (quello buono, perché lo asportano dalle cellule portandolo al fegato) e VLDL (la cui funzione è incerta, forse l'utilizzo del colesterolo da parte dei tessuti periferici). b) il rischio cardiovascolare viene definito come il rapporto fra il colesterolo totale e quello HDL. Deve essere inferiore a 5 nell'uomo e a 4,5 nella donna. La differenza è dovuta al fatto che il colesterolo HDL è mediamente maggiore nella donna che nell'uomo (e quindi il rapporto deve essere minore nella donna). A prescindere da considerazioni salutistiche, perché si può usare il colesterolo HDL per la valutazione dell'allenamento?

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Le lipoproteine HDL passano attraverso varie fasi (cicliche) in cui la loro composizione varia, ma sostanzialmente sono costituite da una parte proteica (apolipoproteine), da colesterolo, da fosfolipidi e da trigliceridi. Poiché le apolipoproteine APO A-I sono la componente più importante delle HDL, sono il marker più preciso della massa totale di HDL circolante. Per uno sportivo il concetto importante è che:

le APO A-I sono incrementate dall'esercizio fisico. È questo il motivo per cui il colesterolo HDL aumenta in chi fa attività sportiva. Fin qui niente di eclatante. Analizzando meglio i dati degli sportivi si scopre facilmente che la variazione di HDL negli sportivi è proporzionale alla quantità di esercizio fisico. Cioè: a) il valore assoluto dell'HDL dipende da un valore basale del soggetto; b) l'esercizio fisico aumenta tale valore in modo dipendente dalla quantità di esercizio svolto. Conclusioni ovvie sono: a) per ridurre l'indice di rischio cardiovascolare conta maggiormente la quantità rispetto alla qualità degli allenamenti. Ciò spiega perché le discipline di resistenza diminuiscono il rischio cardiovascolare molto di più che quelle di forza. b) La variazione di colesterolo HDL può servire come parametro per valutare se quantitativamente i propri allenamenti sono validi. Molti amatori hanno bassi valori di HDL (inferiori a 50). Analizzando i loro allenamenti si scopre che privilegiano la qualità alla quantità: pochi e tiratissimi allenamenti settimanali oppure allenamenti interrotti sempre a metà a causa di una sovrastima delle proprie possibilità (con conseguente quantità ridotta). A prescindere da eccezioni individuali (per fare un discorso preciso occorrerebbe conoscere il valore da sedentario, cioè dopo un periodo di almeno 4-6 mesi di stasi sportiva), un valore di colesterolo HDL inferiore a 65 indica spesso che quantitativamente il proprio allenamento può essere migliorato.

Il fabbisogno energetico degli sport più comuni I valori riportati sono valori medi per un'ora d'attività per un soggetto di 70 kg. I valori relativi si riferiscono alla pratica agonistica. I dati non tengono conto del dispendio metabolico (65 calorie circa) durante l'attività, in genere già inserito nel metabolismo basale. Ovviamente si tratta di valori medi: un conto è pescare sul greto di un torrente stando per un'ora in piedi e spostandosi continuamente lungo la riva e un conto è starsene un'ora seduti, pescando in uno stagno.

Attività Calorie Attività Calorie

Aerobica 440 Ginnastica 180

Alpinismo 600 Golf 240

Baseball 300 Judo 720

Basket 480 Karate 720

Biliardo 50 Nuoto 600

Bowling 250 Pallanuoto 720

Boxe 850 Pallavolo 540

Caccia 200 Pesca 120

Calcio 500 Ping pong 180

Canoa 350 Scherma 600

Ciclismo 660 Squash 840

Corsa 900 Tiro con l'arco 280

Equitazione (galoppo/trotto) 400 Windsurf 200

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La corsa: consumi energetici e carburanti Per quanto riguarda la determinazione dei consumi della corsa, esistono ormai risultati consolidati che non è il caso di mettere in discussione per poche e non significative differenze. Consideriamo due soggetti entrambi alti 180 cm: A, allenato ottimamente, con peso 68 kg e massa grassa 9%, B, sedentario, con peso 78 kg e massa grassa 21%. Il soggetto B per un dietologo è forse qualche chilogrammo sovrappeso, ma non è di certo obeso, anche perché la gran parte della popolazione si trova nelle sue condizioni, se non peggio. Le tabelle classiche più evolute (come quella di McArdle) tengono conto del peso del soggetto. Se si consultano queste tabelle si trova che A dovrebbe consumare andando a 3'45"/km (supponiamo il suo massimo ritmo per un'ora) la quantità di 1175 kcal (compreso il metabolismo basale che è di circa 75 kcal), mentre B (andando a 4'15"/km, la sua massima velocità per un'ora) 1365 kcal. Togliendo il metabolismo basale si scopre che A consuma 68 kcal/km cioè 1 kcal per kg di peso al km, mentre B consuma 92 kcal/km cioè 1,18 kcal per kg di peso al km. Tutto ciò in accordo con i calcoli teorici che danno un'ottimizzazione nella corsa di grandi campioni a 0,9 kcal per kg di peso al km. Si può utilizzare l'approssimazione di Margaria di 1 kcal per ogni kg di peso e per ogni km percorso. Si deve notare che è errato valutare i consumi della corsa, basandosi sul peso dell'atleta: esistono dimagramenti fittizi (Corsa e dimagramento), che sono causati dal diverso carburante impiegato per correre lo stesso chilometraggio a velocità diverse. Il carburante - Ben più interessante è la considerazione sul carburante utilizzato dall'atleta; classicamente si ritiene che l'atleta usi normalmente i carboidrati e che solo a velocità basse intervenga l'uso dei grassi (per esempio nella maratona si stima un 20% di impiego dei grassi). In realtà (ed è sorprendente che la visione classica non ne tenga conto) è stato ormai dimostrato da tempo che anche le proteine vengono utilizzate a fini energetici, quando le scorte di glicogeno sono basse. Il carburante impiegato dipende infatti da: a) la velocità cui si corre b) il grado di allenamento c) la capacità di correre in condizioni di deplezione di glicogeno. I primi due punti sono perfettamente d'accordo con la teoria classica; il terzo invece ci dice che quanto più l'atleta è abituato a correre con scarse scorte di carboidrati tanto più aumenta la sua capacità di bruciare grassi e proteine. Questo avviene in chi si allena tutti i giorni (atleta C) e spesso deve farlo senza aver recuperato completamente l'allenamento precedente. Chi si allena tre volte alla settimana (atleta D) eseguirà l'allenamento avendo pienamente recuperato e il suo fisico continuerà a utilizzare i carboidrati. Nel caso di un fondo lento di 20 km si può ipotizzare che per l'atleta C la miscela sia 60% carboidrati, 30% grassi e 10% proteine mentre per l'atleta D 80% carboidrati, 15% grassi e al massimo un 5% di proteine. A parte le percentuali, si deve rilevare che la nuova visione spiega come mai atleti di tipo D abbiano di solito scarse capacità di recupero: se le loro scorte di glicogeno non sono al massimo il loro rendimento cala vistosamente, mentre per atleti di tipo C il calo è meno sensibile.

La donazione di sangue Sicuramente non è fra gli scopi di questo articolo disincentivare i lettori dal donare il sangue. È però importante rilevare che una donazione di sangue è un evento che il nostro fisico non può assorbire semplicemente con un cappuccino e una brioche, soprattutto se si pratica un'attività sportiva molto

intensa. Una donazione di sangue che comporti una perdita di 250 cc, causa una diminuzione della quantità di sangue disponibile superiore al 5%, praticamente irrilevante per un individuo sedentario in buona salute. Non è così per uno sportivo praticante. Concretamente siamo di fronte a un doping al contrario (si pensi alla pratica dell'autoemotrasfusione). Si supponga che il soggetto parta da un ematocrito di 44; dopo la trasfusione, la parte liquida del sangue si

ripristina facilmente, mentre per la parte corpuscolata il processo è molto più lungo e per riavere lo stesso numero di globuli rossi occorrono circa 10-12 giorni, dovuti in gran parte al fatto che un ciclo emopoietico completo dura una settimana circa. Realisticamente l'ematocrito scenderà del 5%, attestandosi attorno ai 42. Se l'atleta non è conscio di questo e non rallenta gli allenamenti, può andare incontro a uno stress notevole, sia fisico (tenta di sostenere allenamenti che il fisico non regge) sia psicologico (non capisce perché è peggiorato; tanto per dare dei numeri il peggioramento per un runner può essere anche di 10"/km). Cosa fare dopo una donazione - La risposta dovrebbe essere già chiara: a) non gareggiare b) non effettuare lavori di qualità (ripetute) c) diminuire il chilometraggio settimanale di un 20% (per diminuire i danni ematici da microtraumi) d) effettuare i lenti, i medi e i progressivi con un appesantimento dei tempi di circa 10"/km. Tutto questo per due settimane dalla donazione.

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Ematocrito: quanto può variare? Ai fini di una campagna antidoping corretta è fondamentale conoscere come può variare l'ematocrito fisiologicamente. Purtroppo anche in questo campo è difficile mettere d'accordo i medici e l'impressione che se ne ricava è che ognuno tiri l'acqua al suo mulino. C'è chi dice che: a) l'ematocrito è pressoché stabile; e chi dice che: b) può passare anche da 42 a 60. Per la poca esperienza diretta (una cinquantina di atleti monitorati per due anni) si potrebbe concludere che entrambe le affermazioni sono inesatte. La maggior parte del campione ha avuto variazioni del 10% circa (per esempio da 38 a 42). Il che vuol dire che variazioni dal 5 al 15% non possono essere considerate sospette. Che un ematocrito quindi passi da 44 a 50 può (attenzione al "può") essere normale. Non appare cioè giustificata lo sforzo di chi vuole sostenere a tutti i costi che una variazione di ematocrito vuol dire doping. Da http://www.sportpro.it/doping/ricerche/Ematocri.htm si ricava una lunga lista di malattie che possono far innalzare l'ematocrito. Come spiega chiaramente l'articolo non sono compatibili con la condizione di atleta in piena attività; pertanto in un'indagine sportiva si devono considerare solo le variazioni dovute a cause non patologiche. La seguente tabella (i dati sono stati ottenuti da http://www.sportpro.it/doping/ricerche/EMAtocr2.htm sulla base delle considerazioni espresse in http://www.medicina.univr.it/SMB/labmed/doping/doping_epo.htm) vorrebbe dimostrare come l'ematocrito può passare da 40 (punto di partenza) a 60, utilizzando una serie di fattori: 1) Altitudine 2.300 m. 4 punti percentuali 10% 44 2) Sudorazioni profuse, diarrea, vomito, iperventilazione (% non

riportata) 3% (stimata) 45.32 3) Prelievo mattutino 5% 47.59 4) Soggiorno in posizione eretta per 18 min. 3.7% 49.35 5) Cambiamento di postura 13-20% 16,5% 57.49 6) Variabilità biologica intraindividuale 4.6% 2.3% 58.81 7) Stress psicologico 1% 59.40 8) Altre terapie (Ac.Folico, B12; % non riportata) 1% (stimata) 59.99 9) Coefficiente medio di Variabilità analitica 2.3% 61.37

10) Anticoagulante, grado di riempimento provetta, conservazione etrasporto, miscelazione del campione, emolisi, altri fattori interferenti(quali; % non riportata)

1% (stimata) 61.98

Significa veramente arrampicarsi sugli specchi considerare contemporaneamente TUTTE le varie possibilità. Inoltre ognuna di esse è comunque discutibile. In realtà (http://www.sportpro.it/doping/ricerche/EMAtocr2.htm e alcuni testi classici come il McArdle o il Wintrobe) si scopre che: Altitudine - La variazione è sensibile solo per un soggiorno di almeno due settimane e ad altitudini almeno di 4000 m. Sudorazione - Se i prelievi avvengono almeno 12 ore dal termine della gara, si suppone che l'atleta si sia perfettamente reidratato (altrimenti da che medici sarebbe seguito?) Posizione eretta - Basta effettuare il prelievo in posizione supina. Cambiamento di postura, prelievo mattutino e stress - Lo studio non chiarisce come ha ottenuto i valori massimi di variabilità e risulta pertanto molto dubbio a riguardo. Altre terapie - Il dato, contrariamente a quanto detto nel sito Sportpro, è corretto, ma inininfluente: l'1% significa lo 0,4, da 40% a 40,4%. Questa è un'informazione che dovrebbe (ma purtroppo non lo è) essere conosciuta a tutti i medici generici che in presenza di ematocrito basso in atleti non sideropenici prescrivono inutilmente acido folico e vitamina B12. Punti 9 e 10 - In altre parole è ovvio che se l'analisi è malfatta i dati sono inattendibili, ma allora si può dubitare di tutto. Come si vede né la posizione a) (ematocrito stabile), né la b) (ematocrito ballerino) sono logiche. La posizione più sensata sembra quella di ammettere una variazione massima del 15%.

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La valutazione dell'emocromo L'emocromo è l'analisi della parte corpuscolata del sangue (globuli rossi, bianchi e piastrine). Negli sport di resistenza l'atleta dovrebbe eseguire più o meno periodicamente almeno l'esame dell'emocromo per verificare alcuni semplici parametri che sono in stretta relazione con lo stato di forma. Vediamo i principali. Ematocrito - È la percentuale di parte corpuscolata del sangue (globuli rossi, piastrine e globuli bianchi). I suoi valori vanno da 37 a 46 nella donna, mentre nell'uomo variano da 42 a 50. Per gli atleti di discipline di resistenza i valori più probabili sono da 40 a 45 per l'uomo e da 36 a 41 per la donna. Ciò che è importante notare non è comunque il valore assoluto quanto le variazioni nell'arco dell'anno. Se un atleta mediamente ha l'ematocrito a 42, una brusca discesa a 39 causerà sicuramente uno scadimento delle prestazioni. Volume corpuscolare medio (MCV) - Indica la grandezza dei globuli rossi ed è importante perché serve nella diagnosi delle anemie: i globuli rossi possono essere più piccoli del normale (anemia microcitica) o più grandi (anemia macrocitica). Si ricava da (ematocrito*10/numero di globuli rossi) e i valori normali vanno da 80 a 100 femtolitri. In genere gli atleti hanno globuli rossi abbastanza grandi perché in tal modo (a parità di numero) riescono a trasportare più ossigeno. Il valore dell'MCV serve appunto a capire fino a che punto l'atleta è allenato; anche in questo caso sono fondamentali le variazioni. Per esempio dopo uno stop dovuto a un infortunio, è interessante monitorare come il valore dell'MCV ritorna ai valori ottimali per l'atleta. L'ematocrito e l'MCV danno inoltre un'interessante interpretazione di quella che volgarmente viene detta "classe dell'atleta". Alcuni soggetti possono avere normalmente in corso di allenamento un ematocrito oltre i 45 (senza che per questo si pensi subito al doping con eritropoietina). Esiste una sostanziale differenza fra MCV ed ematocrito: l'allenamento fa scendere il valore di ematocrito a valori anche molto bassi (36), mentre l'MCV in genere sale e arriva negli amatori a valori che superano i 90 e per atleti top anche i 110. È chiaro che se l'ematocrito scende troppo e l'MCV non sale si produce un quadro di reale anemia in cui l'atleta è notevolmente penalizzato. Globuli bianchi - Sono cellule del sangue che hanno il compito di difendere l'organismo da attacchi

esterni. Valori normali sono: da 4.000 a 7.000 per mm3 nella donna e da 5.000 a 8.000 per mm

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nell'uomo. I globuli bianchi non sono relazionabili alla prestazione, ma, poiché una loro diminuzione è generalmente relazionabile a una diminuzione delle difese immunitarie, per chi fa sport è fondamentali tenerli sotto controllo. Avere pochi globuli bianchi vuol dire predisporsi a tutti quei malanni stagionali che possono fermare l'allenamento e far saltare ogni programmazione. È possibile usare sostanze naturali per incrementare il numero di globuli bianchi (arginina)

Le tre grandezze fondamentali del fondista C'è molta confusione nella terminologia legata ai parametri fisiologici di un atleta, che spesso sono usati con significati differenti da atleti e allenatori. Solo i fisiologi li definiscono e li interpretano correttamente; ho deciso pertanto di riprendere l'argomento già trattato in Correre per vivere meglio per fare chiarezza una volta per tutte con considerazioni sia teoriche sia pratiche. Tre sono le grandezze fondamentali nella valutazione delle capacità atletiche. Per comprenderle occorre conoscere un minimo di fisiologia. È a tutti ben nota la condizione per la quale in conseguenza di un ritmo di corsa troppo sostenuto iniziamo a respirare affannosamente. È altresì ovvio che il nostro corpo ha bisogno di più energia per andare più forte e che cerchiamo ossigeno per sostenere i meccanismi metabolici che ci forniscono questa energia.

Il massimo consumo d'ossigeno (VO2max) si ha quando in risposta a un aumento della richiesta

energetica non si ha un aumento del consumo d'ossigeno. Ricordo che il massimo consumo d'ossigeno dipende dalla gittata cardiaca massima e dalla massima differenza arterovenosa. Data una distanza e un determinato VO

2max, la percentuale del massimo

consumo d'ossigeno alla quale l'atleta riesce a correre la distanza è detta percentuale di utilizzo. Si verifica (Pèronnet) che l'atleta è in grado di prolungare lo sforzo in condizioni di VO

2max per circa 7' e che

la situazione corrisponde a concentrazioni di lattato nel sangue che vanno da 5 a 8 mmol (convenzionalmente 6,5). Nel tentativo di produrre maggiore energia, accanto al meccanismo aerobico (in presenza cioè di ossigeno) opera anche quello anaerobico (in assenza di ossigeno). Quest'ultimo produce idrogenioni il cui accumulo porta all'inibizione della contrazione muscolare e ciò renderebbe impossibile il mantenimento della potenza meccanica. Pertanto la concentrazione di lattato nel sangue non deve essere così elevata da impedire la contrazione muscolare. La soglia anaerobica (SAN) è il valore massimo dell'intervallo di velocità alla quale vi è costanza di valori di lattato nel sangue per alcune decine di minuti. Convenzionalmente (può variare da atleta ad atleta, da 3,5 a 4,5 mmol/l), corrisponde a una concentrazione di lattato nel sangue di 4 mmol/l (Mader) e alla velocità che un atleta ben allenato può

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tenere per alcune decine di minuti fino all'ora. Un errore comune è quello di far coincidere la cosiddetta potenza aerobica (PAE) con la SAN. La potenza è una grandezza che esprime il lavoro nell'unità di tempo; si può parlare di massima potenza aerobica e ciò avviene al massimo consumo d'ossigeno. Si può anche parlare della potenza erogata quando l'atleta ha la massima concentrazione stabile di lattato nel sangue (corrispondente a 4 mmol/l) e allora sta correndo alla velocità della SAN.

. Poiché l'atleta riesce a mantenere la velocità della soglia anaerobica per alcune decine di minuti, se lo sforzo si prolunga oltre l'ora, deve ricercare un'altra velocità che gli consenta di mantenersi in equilibrio.

La soglia aerobica (SAE) è il valore minimo dell'intervallo di velocità alla quale vi è costanza di valori di lattato nel sangue per alcune decine di minuti. Rappresenta la velocità oltre la quale aumenta la

concentrazione basale di lattato Osserviamo il grafico. Per velocità più basse della SAE la concentrazione di lattato tende a tornare a valori basali; per velocità più alte della SAN la concentrazione s'impenna bruscamente. Convenzionalmente (può variare da atleta ad atleta, da 1,8 a 3,2 mmol/l) la SAE corrisponde a una concentrazione di lattato nel sangue di 2 mmol/l e alla velocità che un atleta ben allenato tiene sulla maratona.

Invecchiamento e prestazione sportiva

Mentre l'invecchiamento biologico inizia già a vent'anni è ormai consolidato che l'invecchiamento sportivo può iniziare anche alle soglie dei quarant'anni. Questo secondo limite è fissato non dalla biologia, ma dalla constatazione che un atleta può risultare competitivo fino a quarant'anni. La domanda "Quando un atleta comincia a invecchiare?", posta all'inizio degli anni Ottanta, avrebbe avuto una risposta diversa (probabilmente trenta o trentacinque anni); il concetto di atleta "vecchio" (o di invecchiamento) è cioè in continua evoluzione. Sostanzialmente oggi si può affermare che:

l'invecchiamento, dal punto di vista atletico, inizia oltre i quarant'anni. Perché questa soglia è importante? Perché l'esistenza della sola soglia dei vent'anni rendeva l'invecchiamento come qualcosa di ineluttabile, incontrastabile e definitivo. I progressi nello sport hanno invece dimostrato come ci possano essere notevoli differenze fra individui che hanno seguito un giusto stile di vita e individui che hanno fatto le scelte sbagliate. Molti studi effettuati prima del 1990 arrivavano a conclusioni piuttosto pessimistiche circa la diminuzione della capacità aerobica con l'età (massimo consumo d'ossigeno) e dell'efficienza cardiaca (ricordo la vecchia e superata formula secondo la quale la massima frequenza cardiaca è pari a 220-età; purtroppo tale formula è ancora utilizzata nelle palestre da istruttori di fitness poco aggiornati). In realtà tali studi sono in via di correzione poiché non tenevano nel giusto conto il fatto che:

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gli effetti dell'invecchiamento sono meno sensibili con l'attività sportiva e con l'alimentazione corretta. Volendo genericamente tracciare l'andamento della variazione delle funzionalità fisiologiche in funzione dell'età, si può dire che si ha un miglioramento fino ai 30 anni, dopo di che si assiste a un declino. In termini quantitativi, cioè volendo esprimere con numeri le perdite di prestazioni, si vede che l'effetto dell'invecchiamento è diverso a seconda della funzione considerata. Per esempio la velocità di conduzione degli impulsi nervosi diminuisce del 15% passando da 30 a 80 anni, mentre la forza muscolare decade fino a un massimo del 50% passando da 25 a 80 anni. Ciò rende più complessa la descrizione dell'invecchiamento. L'effetto, in termini quantitativi, è stato studiato in molti lavori di scienziati e fisiologi dello sport. In particolare, sono stati messi in evidenza molti risultati che motivano le perdite di prestazione degli atleti con il passare degli anni. Modifiche della composizione corporea - Dopo i 35 anni di età gli individui, indipendentemente dal sesso, tendono ad aumentare la massa grassa fino a che raggiungono i 60 anni; in seguito la massa corporea totale si riduce. Anche la massa ossea si riduce, portando all'osteoporosi, fenomeno particolarmente allarmante specie nei soggetti femminili. La perdita di massa muscolare è il principale motivo della perdita di forza massima: nei soggetti sani e attivi, si stima che l'atrofia muscolare indotta dall'invecchiamento causa una riduzione del 40-50% della forza e delle capacità di contrazione dei muscoli, passando dai 25 agli 80 anni. Modifiche a carico dell'apparato cardiovascolare – L'invecchiamento ha un effetto notevole sulla capacità di trasportare e utilizzare ossigeno da parte del sistema cardiovascolare. Alcuni studi affermano che: il massimo consumo di ossigeno diminuisce di circa 0,4-0,5 mL kg-1 (circa l'1%) per ogni anno di età dopo i vent'anni. Questo dato, molto pessimistico, migliora se si considerano invece gli anziani che praticano attività sportiva, nei quali la riduzione del massimo consumo di ossigeno e quindi delle capacità funzionali di trasporto e di utilizzo dell'ossigeno, è meno marcata. La frequenza cardiaca massima diminuisce con l'età, mentre non si hanno variazioni sulla frequenza cardiaca basale (a riposo). Diminuisce anche la gittata cardiaca, definita come la quantità di sangue che viene espulsa in un minuto dai ventricoli del cuore, portando a una riduzione della massima potenza aerobica. Modifiche al sistema respiratorio – L'invecchiamento riduce alcuni indici che contraddistinguono le capacità respiratorie. Tuttavia alcuni studi hanno dimostrato che soggetti anziani che hanno sempre praticato sport dimostrano valori di funzionalità respiratoria notevolmente superiori rispetto a gruppi di controllo sedentari della stessa età. Modifiche all'apparato nervoso – Molti studi hanno cercato di stimare i tempi necessari a compiere movimenti semplici o complessi in vari gruppi di anziani, attivi nello sport o sedentari, confrontando i risultati con soggetti di controllo giovani. Nei soggetti anziani i tempi d'esecuzione si sono rivelati maggiori, ma sorprendentemente per gli anziani che praticavano attività sportiva i tempi di risposta erano migliori rispetto ai giovani sedentari. Inoltre, la pratica sportiva, indipendentemente dall'età, portava a un miglioramento dell'efficienza della funzione nervosa. Quindi, nonostante sia stato rilevato che gli effetti dell'invecchiamento portano a una perdita del 37% del numero di fibre nervose e riduzione del 10% della velocità di conduzione. molti studi hanno suggerito che mantenere uno stile di vita attivo aiuta a conservare il sistema neuromuscolare anche a livelli paragonabili a soggetti giovani, ma sedentari. I dati sperimentali - La partecipazione di soggetti anziani alle gare di maratona ha consentito di avere un quadro molto più ottimistico della situazione. Per gli amanti della corsa si può esprimere l'invecchiamento dopo i quarant'anni come il peggioramento di 1"/km ogni anno. Ciò significa che un runner che a quarant'anni corre i 5000 m in 17'30" a sessant'anni se è invecchiato in modo ottimale può correrli in 19'10". In effetti una buona percentuale di runner migliora addirittura i propri record quando ha più di quarant'anni (come il sottoscritto). Ciò dipende da un miglioramento dell'alimentazione e delle tecniche d'allenamento, ma sicuramente anche dal fatto che possiede uno stile di vita e caratteristiche psicofisiche che minimizzano gli effetti dell'invecchiamento. Purtroppo esistono invece soggetti che dopo i quarant'anni diventano irriconoscibili atleticamente. Ciò dovrebbe far riflettere su quanto sia importante che:

ognuno dopo i 35 anni dovrebbe seguire un piano antiinvecchiamento.

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Il massimo consumo d'ossigeno Per capire cos'è il massimo consumo di ossigeno si consideri un soggetto che inizia a correre. Se parte da una condizione di riposo, si mettono in moto meccanismi energetici più rapidi di quelli aerobici (cioè quelli che utilizzano l'ossigeno) per sopperire all'iniziale carenza energetica, vista la lentezza dei meccanismi aerobici. Vengono usati meccanismi ATP-CP (creatinfosfati) e glicolisi (cioè carboidrati bruciati senza l'uso dell'ossigeno); dopo qualche minuto (da due a quattro a seconda dell'allenamento del soggetto) i meccanismi aerobici si sono adeguati alla richiesta energetica e inizia lo stato d'equilibrio. Durante questo stato l'atleta consuma ossigeno e tale consumo è costante. Se lo sforzo aumenta (come si può rilevare facendo correre il soggetto su un tapis roulant con inclinazioni crescenti della pendenza) aumenta anche il consumo d'ossigeno. A un certo punto il meccanismo aerobico non sarà in grado di fornire l'energia richiesta e inizierà la produzione di acido lattico. Il consumo d'ossigeno dell'atleta aumenterà comunque ancora finché a un aumento della richiesta energetica non ci sarà più incremento: l'atleta ha raggiunto il massimo consumo d'ossigeno (VO

2max). Si verifica (Pèronnet) che l'atleta è in grado di prolungare lo

sforzo in condizioni di VO2max per circa 7' e che la situazione corrisponde a concentrazioni di lattato nel

sangue che vanno da 5 a 8 mmol (convenzionalmente 6,5). In termini più pratici:

il massimo consumo d'ossigeno corrisponde alla massima potenza aerobica.

Poiché il meccanismo lattacido (l'accumulo di acido lattico, non la produzione) inizia a una percentuale ben definita del massimo consumo d'ossigeno è chiaro che:

per aumentare le prestazioni di un fondista si può innalzare il massimo consumo d'ossigeno e/o la

percentuale di esso alla quale si inizia ad accumulare acido lattico. In alcuni casi atleti ben allenati sono in grado di rimanere in soglia anaerobica per sforzi che superano il 90% del massimo consumo d'ossigeno. C'è spesso confusione fra massimo consumo d'ossigeno e sua percentuale di utilizzazione: dire che un atleta d'élite ha valori di VO

2max che arrivano fino all'85% è errato perché il VO

2max non è una

percentuale (si esprime in ml/kg·min). In realtà si vuole dire che per questi atleti la percentuale di utilizzazione, per esempio sulla maratona, arriva all'85%. VO

2max e gare di fondo - L'esempio tipico è rappresentato dalla maratona. Si ha produzione di lattato

dalla glicolisi, ma la concentrazione (circa 2 mmol/l) del lattato rimane costante perché il lattato prodotto è uguale a quello smaltito. L'atleta sta lavorando a circa il 70% del massimo consumo di ossigeno (soglia aerobica). VO

2max e gare di mezzofondo prolungato - A seconda dell'allenamento dell'atleta è una gara che può

durare da qualche decina di minuti a un'ora. L'atleta usa il meccanismo glicolitico e il contributo dei lipidi è trascurabile. Il lattato aumenta la sua concentrazione fino a 4 mmol/l, poi, pur proseguendo lo sforzo, non aumenta. L'atleta sta lavorando a circa l'80% del massimo consumo d'ossigeno (soglia anaerobica) VO

2max e gare di mezzofondo - Quando la velocità aumenta ancora (come nei 10000 m o nei 5000 m)

e si supera l'80% del massimo consumo d'ossigeno il meccanismo glicolitico non è in grado di smaltire completamente il lattato prodotto che sale sopra al livello della soglia anaerobica e tocca il massimo all'arrivo nei muscoli e qualche minuto dopo nel sangue (ovviamente se l'atleta ha corso ad andatura uniforme a livelli da record personale). VO

2max e allenamento - L'allenamento permette di aumentare la percentuale del massimo volume di

ossigeno (cioè l'intensità dello sforzo) alla quale si forma l'acido lattico: per un soggetto non allenato è circa il 55%, mentre per un soggetto allenato è il 75-80%. Si deve inoltre rilevare che i valori di 2 e 4 mmol/l sono del tutto convenzionali, potendo variare da atleta ad atleta: ciò che è importante è comprendere il concetto che portano con sé, cioè l'esistenza di un intervallo dove, mantenendo lo sforzo costante, la concentrazione di lattato non varia. VO

2max e scarpe - In generale 100 g di peso sulle scarpe aumentano il massimo consumo di ossigeno

dell'1%; tradotto in secondi, se l'atleta sta andando all'80% del proprio massimo consumo d'ossigeno, si può stimare una perdita di 1-2”/km a seconda della velocità tenuta; a prescindere da questi calcoli, che per essere precisi dovrebbero tener conto del caso individuale (atleta e scarpa usata), è fuor di dubbio che convenga sempre scegliere la scarpa più leggera che in gara e nel post-gara dia i minori problemi. VO

2max e sistema respiratorio - Contrariamente a quanto pensa la maggior parte dei runner, non

esiste una differenza significativa negli indici funzionali respiratori fra atleti di fondo e soggetti normali. Per amor di precisione devo osservare che alcuni studi hanno messo in evidenza che in atleti molto allenati per sforzi vicini al massimo consumo d'ossigeno (cioè molto intensi) non c'è una completa arterializzazione del sangue venoso, cioè la ventilazione polmonare limita la massima potenza aerobica.

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Ciò però sembra più una conseguenza dell'allenamento dei sistemi cardiovascolare e muscolare, spinti alle massime prestazioni, piuttosto che un cattivo adattamento di quello respiratorio che sostanzialmente con l'allenamento "resta quello che è". VO

2max e cuore - Poiché come visto la funzione respiratoria non ha incidenza sulle prestazioni, il

massimo consumo d'ossigeno (che dipende dal fabbisogno energetico e quindi dal flusso di sangue nei tessuti interessati allo sforzo) dipende dalla gittata cardiaca (che esprime la massima capacità di trasporto dell'ossigeno ai tessuti). Poiché però il consumo d'ossigeno nel passare dalla condizione di riposo a quella massima aumenta di 10 volte, mentre la gittata cardiaca aumenta di 4 volte (da 5 a 20 in un sedentario) deve esistere un altro fattore legato al massimo consumo d'ossigeno. Tale fattore è la differenza arterovenosa, cioè la differenza di ossigeno contenuta nel sangue arterioso e in quello venoso che rappresenta l'ossigeno ceduto ai tessuti. In 100 ml di sangue arterioso sono contenuti 20 ml di ossigeno, mentre in quello venoso 15, cioè in condizioni di riposo 5 ml vengono ceduti ai tessuti. All'aumentare dello sforzo e quindi del consumo d'ossigeno aumenta la differenza e si arriva a circa 17 ml in condizioni di massimo consumo d'ossigeno e in soggetti allenati. Tale dato è medio e potrebbe essere superiore riuscendo a interessare principalmente i muscoli coinvolti nello sforzo. Si deve comunque notare che non c'è differenza fra campioni e soggetti semplicemente allenati. Ricapitolando:

il massimo consumo d'ossigeno dipende dalla gittata cardiaca massima e dalla massima differenza arterovenosa.

È noto a tutti i runner che l'allenamento produce modificazioni al sistema cardiovascolare. In particolare l'allenamento aerobico aumenta la capillarizzazione dei muscoli allenati (con aumento della differenza arterovenosa di circa il 15%); aumenta anche la gittata cardiaca perché, pur diminuendo la frequenza cardiaca a riposo, aumenta di molto la gittata sistolica. Tale aumento è ottenuto con l'aumento del volume del cuore in seguito all'allenamento (anche del 25%); è da notare che il massimo consumo d'ossigeno in genere aumenta prima per effetto della maggior capillarizzazione e di altri fattori (maggior capacità ossidativa dei muscoli) rispetto all'aumento dovuto alla maggior gittata sistolica. Infatti nell'atleta l'ipertrofia cardiaca non è immediata, anche perché in genere non è permanente (riducendo cioè gli allenamenti tende a scomparire). È fondamentale sottolineare che esistono due tipi di ipertrofia: quella eccentrica in cui aumentano le dimensioni delle cavità cardiache e quella concentrica in cui aumentano le dimensioni delle pareti. La prima è indotta da allenamenti di resistenza (dovendo fornire a lungo un gittata cardiaca elevata), mentre la seconda da allenamenti di forza (dovendo fronteggiare un aumento della pressione); quest'ultima non aumenta significativamente la gittata sistolica. L'allenatore di giovani atleti deve pertanto valutare se dirigerli verso il mezzofondo (800 e 1500 m) o verso il fondo perché gli allenamenti tipici dei mezzofondisti veloci (ripetute brevi, ripetute su salite corte ecc.) possono indurre un'ipertrofia concentrica che ovviamente non è utile nell'ottica di competere su lunghe distanze. VO

2max e deallenamento - In particolare si è visto che in soggetti allenati, mantenendo invariata la

frequenza d'allenamento: a) con la riduzione della durata dell'allenamento non si riduce il massimo consumo d'ossigeno; b) con la riduzione dell'intensità si riduce il massimo consumo d'ossigeno. VO

2max ed età - Molti studi effettuati prima del 1990 arrivavano a conclusioni piuttosto pessimistiche

circa la diminuzione della capacità aerobica con l'età (massimo consumo d'ossigeno) e dell'efficienza cardiaca (ricordo la vecchia e superata formula della FCmax = 220 – età). In realtà tali studi sono in via di correzione poiché non tenevano nel giusto conto il fatto che:

gli effetti dell'invecchiamento sono meno sensibili con l'attività sportiva e con l'alimentazione corretta.

Medici e Don Abbondio Attualmente in Italia da parte della classe medica non esiste una cultura della qualità della vita. C'è piuttosto un atteggiamento da terzo mondo in cui l'aspetto più importante della professione medica resta il salvare delle vite umane. Purtroppo molti professionisti (anche validi e affermati da tempo) non comprendono che il medico in un paese evoluto non serve solo per curare chi sta male, ma anche per far vivere meglio chi sta bene. Questa situazione diventa eclatante quando si parla di sport: capita sovente di trovare medici (anche specialisti) che sconsigliano caldamente la pratica dell'attività sportiva a chi ha superato i quaranta, dal neurochirurgo che sostiene che correre fa male alla schiena (solo perché ha fra i suoi pazienti un runner con ernia del disco: piccolo particolare il runner è dieci chili sovrappeso e corre scriteriatamente svariate maratone all'anno) al cardiologo che invita un runner senza nessuna patologia cardiaca a non superare comunque la frequenza cardiaca di 145 battiti al minuto, frequenza calcolata con la preistorica formula dell'80% di (220-età), al medico della mutua che consiglia di non fare più di tre o quattro chilometri a chi corre da "solo" un anno. Il quadro si aggrava ulteriormente quando si tratta di medici sportivi: troppi atleti over 40 sono stati disincentivati a continuare nella pratica dello sport da medici sportivi che non sanno prendersi le proprie responsabilità. Ogni volta che incontrano in un over 40 un'extrasistole (fenomeno di per sé non

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patologico), un soffio cardiaco, tracce di sangue nelle urine, anziché andare a fondo della cosa, preferiscono la soluzione più facile: "lei è una persona perfettamente normale, ma è meglio che non faccia sport o perlomeno non quello agonistico". È chiaro che di fronte a un atleta di vent'anni, magari con notevoli prospettive, non ragionerebbero così e andrebbero a fondo della situazione, salvo scoprire nella stragrande maggioranza dei casi che non c'è nulla di patologico. La colpa di questi medici è duplice perché disincentivando allo sport non fanno altro che dirigere il soggetto verso fattori veri di rischio come l'obesità, l'aumento del colesterolo e dei trigliceridi. La morale deve essere dunque questa: è vero che, come diceva Don Abbondio, se uno il coraggio non ce l'ha non può darselo, ma se uno fa il medico sportivo e non ha coraggio, beh, forse sarebbe stato meglio se avesse scelto un'altra professione. Per concludere (come emerge dall'articolo La morte da sport) il messaggio è che in un atleta sano il rischio da sport è indipendente dall'età; ovviamente non si deve considerare sano un atleta i cui trigliceridi sono a 300 o il cui fattore di rischio del colesterolo è 6!, ma questo molti medici sportivi non lo considerano …

Il muscolo Un muscolo è costituito da fibre (cellule) unite da tessuto connettivo. Ogni fibra è formata da una membrana con più nuclei e da migliaia di filamenti interni, le miofibrille (il citoplasma della cellula) che hanno la stessa lunghezza della fibra. La lunghezza delle fibre varia da 0,05 mm a 30 cm. Il movimento del muscolo avviene grazie ai motoneuroni che vanno dal midollo spinale a un gruppo di fibre formando l'unità motoria. Un motoneurone controlla da una a migliaia di fibre, a seconda della funzione del muscolo interessato. Le miofibrille ricevono gli impulsi motori grazie alle unità contrattili che le compongono, i sarcomeri, costituiti a loro volta da due proteine filamentose, actina e miosina, che scivolano l'una

sull'altra telescopicamente durante la contrazione e il successivo rilascio dei sarcomeri. Le fibre muscolari sono differenziate da un componente (la catena pesante) della molecola di miosina in tre varietà isomorfe: le fibre di tipo I (o ST, slow twitch, o fibre rosse, o fibre resistenti, o fibre a contrazione lenta), le fibre di tipo IIa e IIx (o FT, fast twitch, o fibre pallide, o fibre veloci, o fibre a contrazione veloce). La velocità di contrazione delle fibre I è un decimo di quelle di tipo IIx; quella delle fibre IIa è intermedia. Tale velocità deriva dal meccanismo di scomposizione dell'ADP nella catena

pesante della miosina per ricavarne energia. Le fibre lente sono aerobiche, mentre quelle veloci sono anaerobiche. Un sedentario ha una ripartizione in fibre del tipo 40-30-30 (40% di tipo I, 30% di tipo IIa, 30% di tipo IIx), uno sprinter 20-45-25, una persona che pratica regolarmente jogging 50-40-10, un mezzofondista 55-40-5, un maratoneta 80-20-0, un ultramaratoneta 95-5-0. Si può cioè notare che le fibre IIx sono trascurabili in persone che praticano allenamenti di resistenza. Diversi esperimenti hanno confermato la possibilità di trasformazione di fibre IIx in IIa (del resto è impensabile che un maratoneta nasca senza fibre IIx) e che tale trasformazione è reversibile (anzi è possibile stimolare la trasformazione da IIa a IIx). La conversione fra i tipo I e II non è ancora chiara: esistono prove sperimentali di atleti mezzofondisti (in cui era sicuramente presente una componente di tipo II) passati alle ultramaratone che manifestano assenza di fibre di tipo II (quindi deve esserci stata una trasformazione da tipo II a tipo I) e parallelamente un nettissimo peggioramento sulle velocità tipiche del mezzofondo: praticamente corrono un 5000 m alla stessa velocità di una 100 km! Probabilmente non esistano ricerche che dimostrino queste trasformazioni perché la trasformazione si verifica solo dopo anni (a volte anche cinque o dieci) e allenamenti sempre orientati alla resistenza prolungata. L'ipertrofia muscolare - Le fibre muscolari non si dividono, rendendo impossibile la generazione di nuove fibre (non c'è cioè iperplasia, come si verifica invece negli animali); questa affermazione è in parte smentita da rari rilievi autoptici di giovani maschi morti accidentalmente in cui una gamba presenta un 10% in più di fibre rispetto all'altra. Sembra comunque estremamente ragionevole affermare che l'aumento di volume muscolare debba essere ricondotto principalmente all'ipertrofia muscolare. Infatti il modo più immediato per aumentare il volume del muscolo è di ingrandire le fibre già presenti, aumentando il numero di miofibrille. Il processo parte dallo stimolo dell'allenamento sulle strutture miotendinee che provoca la sintesi di proteine messaggere che attivano i geni responsabili della produzione di proteine contrattili (actina e miosina). È necessario creare anche nuovi nuclei che vengono donati dalle cellule staminali presenti sulla superficie della fibra. Le fibre veloci di sollevatori di pesi sono di circa il 45% più grandi rispetto a quelli di atleti di corse di resistenza. Conseguenze dell'ipertrofia muscolare - L'ipertrofia muscolare comporta un aumento della concentrazione di ATP, CP e glicogeno, consentendo una disponibilità di energia maggiore per via anaerobica; parallelamente non c'è un analogo aumento della capillarizzazione e del volume dei mitocondri, il che equivale a ridurre la potenza aerobica del soggetto. Inoltre le fibre di tipo II crescono con velocità doppia rispetto a quelle di tipo I. Questi risultati sono in netta controtendenza con la scelta di molti allenatori di fondisti o maratoneti di impostare programmi di potenziamento muscolare in atleti senza deficit muscolari al fine di migliorare la prestazione.

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Libero e lo sport "cattivo"

È comparso su Libero (a firma di Nico Petrelli) un articolo dal titolo: Attenti atleti, lo sport fa male alla salute. Cattiva informazione o reale pericolo? L'articolo si riferisce a un comunicato riportato dall'agenzia EurekAlert che a sua volta cita studi norvegesi che sembrerebbero confermare che maratoneti, sciatori di fondo e nuotatori soffrono in percentuale maggiore (tre volte) rispetto ai sedentari di problemi ai polmoni. Non so dove stia l'errore (se nella fonte originaria o nell'interpretazione di Libero): gli studi norvegesi sono corretti, ma vanno letti in tutt'altro modo. Vediamo gli errori logici di lettura. Il campione di confronto - Innanzitutto negli studi originari vengono comparati campioni omogenei e differenziati solo nell'aspetto vita sportiva-vita sedentaria. Praticamente dal confronto vengono esclusi tutti coloro che sono già a rischio per le affezioni polmonari (fumatori, lavoratori di polveri ecc.). È ovvio che un fumatore è decisamente più a rischio di un maratoneta che si allena al Polo nord. Questo è ovvio, ma dall'articolo non è affatto chiaro. Quando si fa una seria comparazione scientifica fra due campioni perché il tutto sia significativo deve variare un solo parametro e quindi spesso non si tratta di A contro (tutto il mondo)-A, ma di A e di (tutto il mondo che differisce da A solo per B): il secondo campione può essere tanto ridotto da rendere molto meno interessanti i risultati dell'analisi. È il nostro caso perché il campione di confronto è composto da persone sedentarie che vivono una vita veramente molto sana eccezion fatta per la pratica sportiva. Il campione di partenza - Anche in questo caso l'articolo ha mancato di spiegare (almeno nel caso dei maratoneti) che lo scopo dello studio non era di dimostrare che lo sport fa male ai polmoni, ma che fare sport in condizioni disagevoli per la salute crea problemi: non occorre essere dei premi Nobel per arrivare a dire che non è salutare sciare a -20 °C, nuotare per ore nell'acqua clorata o allenarsi in centro a Milano o nella tundra polare; lo studio norvegese vuole quantificare quanto è dannoso. In altri termini: lavorare in miniera può provocare guai ai polmoni (silicosi), ma non posso titolare: Attenti cittadini, il lavoro fa male ai polmoni!

Il sangue

Il sangue è un liquido viscoso costituito da cellule (globuli rossi, globuli bianchi e piastrine) disperse in un fluido, il plasma. Per uno sportivo praticante non basta certo questa semplice definizione per capire l'importanza del sangue nella pratica di discipline di resistenza come la corsa, il ciclismo o lo sci di fondo. Per evitare di prendere cantonate, è importante che ogni atleta conosca le informazioni principali in modo chiaro e corretto: ricordo un runner, informatore medico, che era convinto che il doping con eritropoietina si attuasse con un'iniezione intramuscolare appena prima della gara! Un po' di informazioni - Al di fuori dei vasi, il sangue coagula separando il siero, liquido trasparente di color paglierino, dal coagulo costituito da una serie di filamenti di fibrina, nelle cui maglie vengono trattenuti gli emociti. Il plasma è formato da acqua, sali minerali, proteine colloidali, mentre gli elementi cellulari del sangue si differenziano in globuli rossi, contenenti un cromoprotide, l'emoglobina, e in globuli bianchi o leucociti, individuabili anche nella linfa; nei Mammiferi sono presenti anche le piastrine. Il volume nell'uomo adulto è di circa cinque litri; più pesante dell'acqua, ha un peso specifico di 1,055. Il numero dei globuli rossi è maggiore rispetto a quello dei globuli bianchi; sono discoidali, dal diametro piccolissimo e non presentano il nucleo. La formazione dei globuli rossi (eritropoiesi) segue un ciclo della durata di sette giorni circa. L'emoglobina costituisce, insieme all'ossigeno, l'ossiemoglobina, un componente labile che può rilasciare ossigeno alle cellule dei tessuti e, quindi, il sangue svolge una funzione respiratoria. I leucociti, di forma variabile, sono difensori dell'organismo; le piastrine, molto piccole, incolori e prive di nucleo, partecipano alla coagulazione del sangue. Per conoscere i valori corretti si consulti Le analisi del sangue. L'ematocrito - È il volume percentuale di sangue che è costituito da cellule; un ematocrito di 44, significa che il 44% del volume del sangue è costituito da cellule. Di norma il valore di ematocrito è abbastanza stabile; tuttavia i valori possono subire variazioni considerevoli. Ovviamente all'aumentare dell'ematocrito aumenta la viscosità del sangue perché il sangue diventa "più solido e meno liquido". Durante lo sforzo fisico la richiesta di ossigeno aumenta fino a 20 volte, determinando aumenti del flusso ematico sino a quasi 25 volte. Quanta più emoglobina è disponibile tanto più ossigeno può essere trasportato, ritardando la crisi del sistema atletico. Più emoglobina significa più globuli rossi e in definitiva un valore di ematocrito più alto: questo nella stragrande maggioranza dei casi. Alti valori di ematocrito (oltre che dannosi alla salute) possono anche essere negativi per la performance sportiva perché se il sangue è troppo denso non scorre facilmente nei piccolissimi capillari che irrorano i muscoli. I gruppi sanguigni - Nell'uomo è definibile un gruppo sanguigno, cioè un tipo di sangue che viene definito e contraddistinto in base al numero di antigeni presenti nei globuli rossi; ne esistono vari sistemi, il più noto dei quali è il sistema A B 0. I globuli rossi possono contenere antigeni A, B, AB, o non averne alcuno (gruppo 0). La trasfusione del sangue può avvenire solo tra gruppi sanguigni compatibili. L'eredità dai gruppi sanguigni avviene in base alla legge di Mendel; altri fattori di isoimmunizzazione sono

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dati dal fattore Rh, molto interessante per lo studio dei fenomeni di incompatibilità tra madre e feto. L'85% degli individui è Rh positivo (Rh +), i rimanenti individui sono Rh negativi (Rh-). Se una donna Rh- ha un figlio da un Rh +, nel suo sangue si creeranno degli anticorpi per il fattore Rh che possono distruggere il sangue del feto, passando attraverso il filtro placentare (eritoblastosi fetale); esso è tipico della seconda gravidanza e delle successive. Nel 1920 l'austriaco Karl Landsteiner distinse i quattro gruppi sanguigni, provando l'esistenza del fattore Rh nei globuli rossi.

La soglia anaerobica L'ormai celeberrimo test di Conconi si esegue percorrendo a velocità crescente tratti fissi. In genere viene eseguito in pista, utilizzando un cardiofrequenzimetro per registrare la frequenza cardiaca. Il tratto di riferimento può essere di 200 o meglio di 100 m, mentre gli incrementi di velocità dovrebbero essere di circa 10"/km in modo da scalare banalmente di un secondo ogni cento metri. A ogni punto di riferimento si registrano velocità e frequenza cardiaca. Si costruisce poi un grafico dove in ascissa c'è la velocità e in ordinata la frequenza cardiaca (FC). Si nota che per velocità basse c'è linearità (una retta), poi a un certo punto c'è una deflessione con un brusco cambio di pendenza. La velocità alla quale cessa la linearità è quella della soglia anaerobica (SAN).

Interpretazione - L'interpretazione del fenomeno è semplice: quando cessa la linearità incomincia l'accumulo di acido lattico (si esce cioè dall'intervallo 2-4 mmoli in cui lo sforzo può avvenire in condizioni in cui la concentrazione di lattato è in equilibrio). Tanto più alta è la soglia tanto maggiore sarà la velocità a cui l'atleta riuscirà a correre senza accumulare acido lattico. Importanza scientifica - Per dare a Cesare quel che è di Cesare, occorre precisare che il concetto di soglia anaerobica (e la relativa curva sigmoide) fu introdotto per la prima volta dalle ricerche di Wasserman (1964). L'importanza di tali ricerche è ovviamente enorme in quanto è un'evidenza sperimentale dei meccanismi con cui avvengono attività aerobiche e attività anaerobiche. In altre parole la curva è la descrizione sperimentale di un modello energetico che si applica per sforzi tipici del mezzofondo. Il test di Conconi è una versione più semplice delle esperienze di Wasserman (che richiedevano una strumentazione di laboratorio). Importanza nell'allenamento - Molti allenatori (e purtroppo anche scienziati) si sono invaghiti della curva di Conconi e hanno creduto di aver trovato un parametro (la SAN, appunto) che potesse descrivere l'atleta e sul quale fosse possibile tarare l'allenamento. Questo è un errore madornale, almeno concettualmente. Infatti esistono diverse limitazioni all'uso della SAN: a) il limite pratico di calcolo. Mentre un test di corsa dà risultati molto precisi (i tempi), il calcolo della SAN è affetto da una serie di possibili errori (l'atleta non sa correre in maniera uniformemente progressiva; i risultati dipendono dalla strumentazione usata; i risultati dipendono dalla motivazione dell'atleta a eseguire il test; ecc.).

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b) Il valore di un atleta su una distanza è dato dalla combinazione di almeno sei grandezze; a seconda delle distanze, alcune sono trascurabili, ma pretendere di descrivere un atleta (e di impostare il suo programma di allenamento) con una sola grandezza è veramente semplicistico. Siamo nel caso analogo all'uso del cardiofrequenzimetro: l'importanza di un parametro porta erroneamente a credere che sia l'unico significativo e quello da cui dipendono tutti gli altri. Per esempio è importante anche la capacità aerobica (CAE), cioè la capacità di mantenere il più a lungo possibile il ritmo della SAN, massima nel campione e scarsa nel runner meno evoluto. c) Il concetto di soglia anaerobica non è un parametro INDIPENDENTE, nel senso che non aggiunge informazioni a un vero allenatore; è un altro modo di descrivere alcune (non tutte!) caratteristiche dell'atleta. Poiché, come ormai ammettono anche coloro che vivevano eseguendo i test Conconi, la soglia può essere calcolata facendo correre una certa distanza, per un allenatore che deve stilare un piano di allenamento sapere che un atleta corre l'ora a 3'45"/km o che ha una soglia di 16 km è ESATTAMENTE LA STESSA COSA (i puristi direbbero che ci possono essere piccole differenze, ma tali differenze sono ampiamente compensate dagli errori di misurazione della soglia; d'altra parte sapere di avere una soglia di 16 km o di 16,045 cosa cambia?). Solo che ragionare in termini di tempi al chilometro è molto più semplice perché sia gli allenatori sia gli atleti guardano il cronometro: un atleta che passa al primo chilometro di una gara in 3'30" sa se il ritmo è troppo veloce. Figuriamoci se mentre gareggia deve calcolare a che velocità all'ora corrisponde per poi confrontarla con la propria soglia! I metodi di calcolo - A prescindere dall'esecuzione del test di Conconi in modo classico, esistono altri metodi empirici di calcolo della SAN. Uno ancora molto noto è il test di Cooper (la distanza percorsa in 12 minuti); i motivi che abbiamo citato per evidenziare i limiti della SAN valgono a maggior ragione per il test di Cooper (che fra l'altro nella sua formulazione originaria voleva misurare il massimo consumo d'ossigeno) poiché prende in esame un intervallo temporale in cui le altre grandezze fisiologiche non sono trascurabili. Sicuramente migliori sono i risultati ottenuti dalle tre scuole di pensiero che calcolano la SAN considerando: a) la velocità che si tiene in un'ora di corsa b) la velocità di una gara di 14 km c) la velocità di una gara di 10 km Le differenze tengono conto dell'allenamento del soggetto: la a) è valida per atleti a livello mondiale, la b) per atleti con SAN di circa 17 km/h, la c) per atleti con SAN di circa 14 km/h. Come si può vedere chi è più allenato e ha un motore migliore riesce a correre più a lungo al ritmo della soglia anaerobica (ha una CAE migliore): il campione per un'ora, l'atleta con SAN a 17 km/h per circa 50' e l'atleta con SAN a 14 km/h per circa 42'. Nessuna delle tre definizioni può comunque essere accettata scientificamente; perché uniscono il concetto di SAN a quello di CAE. Se si calcola la SAN solo a scopi statistici, la cosa più semplice da fare è mediare le tre definizioni: si prende in esame il tempo sui 10000 m e si effettua una piccola correzione. Il calcolo - Si calcola il tempo sui 10000, si calcola il tempo al km (si divide per 10 la distanza) e si aggiunge un numero di secondi pari al tempo sui 10000 in minuti diviso per sei. Questo è il tempo teorico di corrispondenza sull'ora (cioè il tempo che chi non è allenato sull'ora farebbe con allenamento per lo meno buono). Dividendo 3600 (i secondi che ci sono in un'ora) per il tempo teorico trovato, si trova la soglia. È più facile se si lavora in secondi. Pertanto se si corre il diecimila in M minuti e S secondi si avrà: Soglia = 3600/((M*60+S)/10 + (M+S/60)/6) Gli amanti della matematica si possono divertire a semplificare l'equivalenza. Con una piccola approssimazione si trova: SOGLIA= 35000/(60*M+S) Vediamo un esempio. L'atleta corre i 10000 m in 40'30". La sua soglia è 14,414 km. Con la formula approssimata si trova 14,403 km. Un altro esempio. I 10000 m sono corsi in 50'42". La soglia è 11,514 km e con la formula approssimata 11,505 km. Come ultimo esempio scegliamo un top runner: 10000 m in 28'. La sua soglia è 20,850 km. Con la formula approssimata si ottiene 20,833.


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